Mercoledì, 10 Gennaio 2018 21:07

Cenere e carbone

Scritto da Vito Teti
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Foto di Bruno Tripodi Foto di Bruno Tripodi

«Cosa ti porta quest’anno la Befana?», domandava qualcuno. E un altro rispondeva: «Cenere e carbone». Il dialogo avveniva tra ragazzi che ormai non credevano più alla Befana e ironizzavano sulla sua scarsa generosità nei confronti di chi non aveva fatto il bravo. E qualcun altro rispondeva: «Magari. Sciocco sarebbe il carbone…».

Ancora il carbone era un lusso per chi non sapeva come riscaldarsi. Ricordo il braciere con i tizzoni neri che faticavano a diventare rossi e, magari, una pignatta con i fagioli che bollivano a fuoco lento. E poi bisognava fare attenzione perché i più piccoli non si bruciassero e allora c’era il “parabraciere” fatto con bastoncini di ferro, che diventava anche la “buffetta” dove poggiare i piatti. E poi c’erano i bracieri che, la sera, venivano accesi fuori delle porte di casa e c’erano i giochi di chi andava a “fare volare” in alto ceneri e braci e qualche volta faceva, per dispetto, la pipì in quel braciere che bruciava di maledizioni delle povere donne. A volte noi "monelli" nascondevamo i bracieri ardenti nei vicoli o nei portoni e allora era tutto un clamore, un chiamare, un inveire, mentre noi, un po’ divertiti e un po’ pentiti, trattenevamo a stento le risate. E poi c'erano i bracierini di latta, con cenere e braci, che ogni alunno portava da casa a scuola, dove il freddo ti faceva gelare i piedi e le guance. Il braciere e la "puzza" della pipì o del sudore dei calzini stracciati e bucati e noi che, tenaci, continuavamo a leggere sussidiari e libri perché sapevamo che anche il freddo sarebbe finito con gli studi e con l'accesso a un mestiere o a un impiego.

Tempo addietro con una mia laureanda di un paese delle Serre eravamo impegnati a scegliere l’argomento della sua tesi. Nel corso di molti incontri, faticavamo a trovare un tema per un’etnografia originale, poi la studentessa, non so come, mi parlò di suo papà carbonaio, come era stato il suo nonno e altri della sua famiglia fin da tempi antichi. Quando la memoria della famiglia rischia di dissolversi anche perché pensiamo che sia importante soltanto quello che accade lontano dalla nostra casa o dalla nostra comunità, altra versione, complementare, del nostro pensarci al centro del mondo. Michela Pullella ricostruì la storia di una delle ultime famiglie di carbonai. Poi scoprii che il padre era il giovinetto che, con il camion, girava nei paesi e bussava alle porte e chiamava le donne, dicendo: «Signora, carbone speciale, quanti sacchi ve ne lascio? Non avete i soldi? Vi faccio un buon prezzo. Mi pagate poi, Madonna mia, non vi lascio i figli gelare». E cominciava un teatro sulla qualità del carbone, se era di “ilici” o di castagna, se era bagnato o asciutto, se era caro o mercato. Mia madre e le donne della ruga per l’inverno facevano una riserva di almeno venti sacchi, custoditi nei bassi. Vennero poi le stufe, elettriche o a gas, i termosifoni, i pellet, i caminetti termici. Eppure, ancora, il carbone resiste.

I carbonai, nonostante lo spopolamento, la scomparsa di antichi mestieri e saperi, continuano a custodire un’arte antichissima. Soprattutto nei paesi delle Serre, dove ancora le stufe di ghisa hanno una loro fortuna e un loro fascino. Fare il carbonaio costa sudore e fatica, attenzione e passione.

Le carbonaie fantastiche e magiche architetture all’aperto permettono la trasformazione delle legna in carbone, secondo una tecnica antichissima adottata, a quanto pare, già dai Fenici. Il legno usato è il leccio e il faggio.

L’intero processo ha inizio con l’accostamento della legna, formando un cerchio, selezionata in base alla grandezza, prima i pezzi più grossi per poi finire con quelli più sottili. Questa prima fase dura circa dieci giorni, il risultato ottenuto è una cupola alta quasi sei metri e larga molto di più, ricoperta da paglia o terra bagnata.

Il carbonaio più esperto e abile accende il fuoco nella “bocca” del covone: una fessura all’apice della cupola.

Per circa venti giorni il carbonaio dovrà monitorare costantemente la cottura del covone alimentando il fuoco, giorno e notte. Lo stato di salute dello “scarazzu”, da cui dipende la qualità del carbone, è indicato dal colore del fumo.

Il carbonaio viveva nei boschi, da nomade, lontano dalla propria famiglia, nelle baracche. Il carbone oggi parte dalle Serre per le città d’Italia, del Nord e d’Europa. È adoperato per i prodotti preparati alla brace. Bravissimi fotografi come Salvatore Piermarini e Brunello Tripodi (e come dimenticare il bellissimo film di Michelangelo Frammartino, “Le quattro volte”?) ci hanno lasciato immagini splendide e indimenticabili di questa antica arte che ha ancora una sua rilevanza economica.

Ogni tanto i giornali e le riviste del Nord, con commentatori frettolosi, che scrivono da lontano, ci forniscono descrizioni colorate e folkloristiche, retoriche ed edulcorate, di qualcosa che ancora resta nella memoria e nel paesaggio delle Serre e che potrebbe trovare un nuovo impiego. Bisognerebbe ascoltarli, questi carbonai del presente, capire la loro vita e anche un certo orgoglio per una tradizione a cui si sentono legati e a cui vorrebbero dare nuova vita.

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