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Non era ancora nato Sharo Gambino quando, il 28 ottobre del 1922, la marcia su Roma inaugurava il ventennio all’insegna del regime mussoliniano e non era (“tecnicamente” non era, si potrebbe dire) ancora fanciullo quando la madre in un giorno del 1929, lo aveva “abbandonato”, all’età di quattro anni, “nelle mani della madre superiora delle monache di santa Giovanna Antida” che gestivano l’asilo infantile di Serra San Bruno. E proprio quell’asilo sarebbe stato il luogo del primo “incontro” di Gambino con il duce, il cui ritratto era nell’aula “collocato sotto il crocifisso” e “mostrava un mezzo busto d’uomo vestito di sola camicia nera sulla quale spiccavano il collare d’un ordine cavalleresco e un paio delle solite medaglie”.
Un affresco sul fascismo a Serra
Comincia con questa visione del ritratto di Mussolini Fischia il sasso. L’impero in provincia, che l’editore Rubbettino ha restituito con una nuova edizione ai lettori nell’anno del centenario della nascita di Sharo Gambino e dell’ottantesimo anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Una doppia ricorrenza che pone questo libro – pubblicato in prima edizione nel 1974 dalle Edizioni Internazionali di Catanzaro e in seconda nel 1984 dall’editore Qualecultura-Jaca Book – come una lettura imprescindibile se si vuole provare a cogliere, attraverso il filtro della testimonianza e della sensibilità letteraria, l’articolata fenomenologia di un periodo storico i cui echi ancora risolutamente risuonano nella storia d’Italia. E ha ragione Goffredo Fofi quando, nella sua prefazione a questa nuova edizione del libro, ricorda come sia stato “più il cinema che la letteratura ad aver raccontato gli anni del fascismo, una volta che il fascismo era caduto sconfitto dagli alleati e, rendiamogliene gloria, dai partigiani”. Il cinema di Luigi Zampa con il suo Anni difficili e del Tutti a casa di Comencini, prima ancora e ancor meglio dei narratori, che si concentrarono maggiormente “a raccontare il tempo del riscatto – la Resistenza, il ritorno dalla guerra, i primi tempi di una ancora incerta democrazia – che non lo ieri dell’oppressione e del conformismo”. Anche di questo va riconosciuto il merito a Sharo Gambino, per aver dato “nuova vita a quegli anni […] legando tra loro il piccolo e il grande, il quotidiano e lo storico, da dentro uno ‘strapaese’ che mirava a una grandezza cresciuta sulla violenza” (sono sempre parole di Fofi). Un affresco sul fascismo, quello di Gambino, frutto di osservazione diretta, visto dalla periferia dell’impero (condizione a cui il sottotitolo del libro richiama) e che è giocato tra storia e memoria, in continua dialettica tra il suo valore di testimonianza di un’epoca e il suo significato civile che erompe dal giudizio politico, impietoso, senza indulgenze, definitivo.
Il balilla Sharo Gambino
Diario personale, ritratto di un paese meridionale negli anni che vanno dal 1929 al 1936, cronaca di avvenimenti anche drammatici condotta con piglio ironico e impennate ferocemente satiriche, Fischia il sasso è, innanzitutto, l’autobiografia di una fanciullezza fascista. Di una fanciullezza, quella del balilla Sharo Gambino, che vediamo subito straordinariamente apparire nella foto che occupa la bella copertina del volume e nel racconto che lo scrittore fa di quella foto: “Nella foto formato cartolina ero raffigurato in piedi su una savonarola, con in testa uno strano copricapo nero a bustina da cui ciondolava un fiocco che pareva un pennello da barba. Indossavo una camicia nera chiusa al collo da un nastro annodato e sul petto mi pendevano le due medaglie di bronzo che mio padre s’era guadagnato in guerra […]. La divisa era completata da goffi pantaloncini fin sopra il ginocchio. E salutavo con manina grassottella aperta e braccio teso. Unica nota stonata, in forte e palese contrasto con tanta marzialità […], un fiorellino tra le dita della sinistra pendente lungo il fianco”. Una fanciullezza che si riempie di miti e realtà immaginarie: un padre che parte per combattere in Africa e che il figlio immagina come un eroe fascista, mentre è, “soltanto”, uno che cerca di guadagnarsi la vita; i miti ben noti della romanità e dell’impero; le ruote del destino e le maschie gioventù e le “battaglie” (“battaglia autarchica, battaglia demografica, battaglia del grano”, annota Gambino), il tutto avvolto nella teatralità delle parate del regime e delle adunate, nella propaganda persuasiva e continua sin dai primi anni di scuola, nelle strofe celebrative che figli della lupa, balilla, avanguardisti ossessivamente innalzavano in lode al duce e al fascismo: “Fischia il sasso, / Il nome squilla / del ragazzo di Portoria / e l’intrepido Balilla / sta gigante nella storia”. Sfila, in questo libro, tutto il campionario della mitologia fascista a contatto con la vita di miserie, stenti, lotta per la sopravvivenza della povera gente. Ma Gambino, per quanto il materiale gliene offra ampiamente la possibilità, solo raramente lancia invettive, perché preferisce usare l’acido corrosivo dell’ironia, spogliare la retorica e le impalcature celebrative del fascismo cercando di muovere il riso. Come in un “amarcord” meridionale, si succedono e si confondono in Fischia il sasso figure grottesche e personaggi patetici, esplosioni di ingenuo vitalismo e piccole storie di ogni giorno, vizi, caratteri, lotte politiche di paese e un erotismo, quando è presente, abbastanza casareccio. E se c’è un’immagine emblematica, che quasi racchiude, a volerne decifrare tutte le implicazioni, il nucleo del libro è quella di quando il piccolo Sharo si trova “a pochi passi dal duce”, ma, quasi novello Fabrizio Del Dongo alla battaglia di Waterloo, sebbene sollevato dal padre “al di sopra del mare di teste” non riesce a vederlo e deve accontentarsi delle sole “quattro enormi lettere maiuscole” della parola DUCE che navigavano sul mare di Pizzo.
I serresi nemici del duce
Una postilla conclusiva al volume non può dimenticare gli oppositori del regime fascista che, come Gambino documenta, pure a Serra San Bruno, sfidando il pericolo delle ritorsioni, non mancavano: “Di questi, quattro o cinque abitudinariamente si riunivano per complottare nella farmacia del dottor Barbieri, a ridosso della chiesa dell’Addolorata, proprio di fronte al monumento ai caduti. Da lì, quando c’erano adunate e discorsi di gerarchi, se ne stavano ad osservare e ridevano facendo finta di star parlando di cose loro”. Il più noto di tutti, anche alle generazioni successive agli anni del fascismo, era Pepposello, peraltro considerato dai fascisti locali un “traditore” perché (forse) nei primi tempi del regime aveva indossato pure lui la camicia nera e poi aveva compiuto il voltafaccia “scusandosi col dire che non poteva perdonare a Mussolini d’aver ammazzato un certo Matteotti”: era “un uomo magro, cranio pelato, pelle del viso rosea e tirata sugli zigomi, rada, quasi inesistente la barba […]. Aveva casa ed officina all’entrata nord del paese e stava sempre ad inzaccherarsi col grasso adoperato a lubrificar biciclette, dategli da riparare, indosso un casacco di tela bluastra, mai una giacca, una camicia e cravatta, scarpe lucide, sempre lì a lavorare, lavorare, fosse domenica o altra festa comandata […]”. Un altro nemico del duce era un orefice, cognato di Pepposello, che aveva inventato un’originalissima forma di contestazione ai cortei fascisti che attraversavano a Serra il corso Umberto, dando spettacolo dei propri escrementi versati nella pubblica latrina, posta a lato del corso, nel momento in cui quei cortei vi passavano davanti e finendo preventivamente nella camera di sicurezza dei Carabinieri Reali ogni qualvolta si attendeva in paese la visita ufficiale di “qualche pezzo grosso del regime”. Poi c’era il professore-tipografo, che si poteva vedere seduto sulla porta della tipografia o appoggiato a uno degli alberi di piazza San Giovanni. Aveva rinunciato a utilizzare la propria laurea in matematica il professore-tipografo, al lavoro e allo stipendio, pur di non aderire al fascismo e quella laurea l’aveva persino ridotta in pezzi, lacerata e viveva stampando con i caratteri di piombo “biglietti da visita, carta e buste intestate e qualche manifesto”. Tutti nemici di Mussolini che il piccolo Sharo, ben educato dalla propaganda del regime, inevitabilmente immaginava come “uomini dalla fronte bassa, capelli scomposti, narici simili a voragini, occhi rossi, di brace, denti a zappa. Straccioni con le tasche piene di bombe, coltelli, fogli proibiti”. Diavoli in terra, insomma, da cui stare accuratamente alla larga. Ma anche per questa loro così vivida e umana rappresentazione, indelebile testimonianza a memoria di chi coraggiosamente seppe pronunciare il proprio “no”, bisogna dire, come nella sua conclusione Goffredo Fofi, “grazie, Gambino”.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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