Domenica, 04 Maggio 2025 09:40

Cosa si mangiava nella Serra. Una “povertà agiata” nella scarsezza di risorse

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Su alcuni aspetti relativi al cibo e all’alimentazione nell’area delle Serre abbiamo avuto modo di scrivere in questa rubrica altre volte, per mostrare, per esempio, il ruolo in età moderna del culto di San Bruno e dei miracoli associati in occasione delle carestie o per descrivere i rituali a tavola osservati nei “diari” ottocenteschi di Horace Rilliet e di Elie Perrin o, ancora, per coglierne le cento e mille sfumature in un bel libro di Sharo Gambino (Venerdì e domenica. Poesia calabrese del mangiare, Fondazione Carical, 2004). E, ovviamente, sembra appena il caso di notare che, raccontando un territorio, la scelta debba essere quasi inevitabile perché la questione del cibo, “fatto sociale totale” per usare la terminologia di Marcel Mauss, coinvolge le condizioni della vita “materiale” delle popolazioni, la loro salute, la produzione economica, gli scambi e i commerci. Un ulteriore aspetto si può mettere in luce facendo il punto sulle disponibilità di prodotti in particolare tra la prima e la seconda metà del XIX secolo, con riferimento ad alcune fonti bibliografiche che ne tracciano un quadro non privo d’interesse. 

L’alimentazione nella Serra: il pane, i fagioli, le patate 

È il caso degli Studi statistici sull’industria agricola e manifatturiera della Calabria Ultra II.a fatti per incarico della Società Economica della Provincia di Luigi Grimaldi (Catanzaro, 1809 – Catanzaro, 1867), editi a Napoli, presso lo Stabilimento librario-tipografico di Borel e Bompard, nel 1845. Una figura intellettuale peraltro non irrilevante, quella dell’avvocato e professore di Diritto Romano e Civile nel Regio Liceo di Catanzaro, se Giuseppe Pitrè gli ha dedicato un ritratto nel suo Nuovi profili biografici di contemporanei italiani (Tipografia A. Di Cristina, 1868): “Ebbe molteplici incarichi municipali e governativi, e scrisse di economia pubblica ed agricola, di statistica e di archeologia, di storia civile e di agricoltura. Le sue prime riflessioni sull’Industria agricola e manifatturiera e sulla Pubblica Istruzione, quantunque annunziassero la inesperienza dell’età, furono ricevute con lodi non compre né buscate. […] E qualche tempo dappoi una memoria dettava sulla Statistica delle ferriere, che mosse l’ira d’altissimo personaggio interessato a sostenere il dazio sul ferro estero che dall’A. volevasi abolito o ridotto; la Statistica de’ minerali delle Calabrie; i Cenni storici degli studi statistici in Italia; gli Studi statistici sull’industria agricola e manifatturiera della provincia, primo tentativo di statistica provinciale in Italia, che presentato al VII Congresso degli scienziati in Napoli destò il desiderio di veder eseguito consimile lavoro per le altre italiche provincie, e fu specialmente menzionato tra le cose più importanti presentate alla sezione di Agronomia e Tecnologia nel rapporto generale del segretario Scialoia”. Tante sono le osservazioni sul territorio delle Serre sparse da Grimaldi nelle pagine degli Studi statistici e per averne un quadro completo, con i congiunti dati quantitativi, occorrerebbe far riferimento anche alle tabelle pubblicate in appendice, ma nella parte dedicata al “circondario di Serra” – che comprendeva i comuni di Spadola, Simbario, Brognaturo e Fabrizia – si ha un’efficace sintesi: “La parte coltivata ch’è quasi di 1/3 minore della boscosa, e per 7/10 più dell’incolta, comprende 1030 mog. [moggi] irrigati, ed è addetta a cereali, legumi, lino , canapa , olio e vino, e viene ingrassata o con concimi animali o con letami di stalle o con lupino che in maggior quantità si semina in Fabrizia, o con spazzature di strade che si usano specialmente nella coltura degli ortaggi, o infine colle mandrie. Si adopra più la zappa che l’aratro, e la rotazione agraria è biennale ne buoni terreni e triennale negli sterili. Nel 1.º anno si zappa da marzo (ed in Brognaturo da dicembre) a maggio, e per lo più appena zappato il terreno vi si coltivano nello stesso anno, fagiuoli, piselli, patate e granone che si seminano, i primi due in marzo, le seconde alla fine di esso a tutto aprile, e l’altro da’ 10 maggio a’ 10 giugno; nel 2.° anno da settembre a tutto novembre vi si lavora per la semina del grano, cui or si unisce il lino, l’orzo o l’avena, che alle volte si coltivano invece del grano, oppur segala. Ne’ terreni sterili nel 3.º anno si semina o avena o lupino dopo le prime acque di settembre, oppur si usa il riposo che in talune terre dopo un anno di semina a grano si estende per 2 a 5 anni. Le patate son molto coltivate specialmente in Fabrizia ove è destinato all’uopo il quarto del territorio. Il grano dà il 2 a 4 per uno, il granone il 5, l’avena il 6, i legumi l’8, e le patate il 20. I prodotti del circondario in generale sono perloppiù mediocri (eccetto i piselli di Simbario che sono ottimi) ed insufficienti. I contadini superano anche i bisogni campestri e vanno ne’ vicini circondari, ed in maggior numero nell’inverno a coltivare gli uliveti della contrada detta piana di Monteleone, ed in està nel marchesato per la messe. La pastorizia è ben piccola cosa, poiché vi son pochi pascoli, e solo in Simbario è spontaneo il trifoglio: le mandrie son poche e s’impiegano principalmente a concimar le terre”. Laddove bisogna considerare, riferendosi all’indagine di oltre un secolo dopo di Osvaldo Baldacci (La Serra. Monografia antropogeografica di una regione calabrese, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1954), che a Serra il suolo era per oltre la metà della superficie occupato dal bosco e la parte rimanente era distribuita tra seminativo e pascolo (con un’ulteriore porzione, di dimensioni più ridotte, di terreno improduttivo), mentre, per esempio, a Fabrizia le parti preponderanti, quasi in egual misura, erano il bosco e l’incolto produttivo, poi veniva il pascolo e, di minore estensione, il seminativo e l’improduttivo. Uno degli alimenti base era naturalmente il pane, che poteva essere di segale (e questo cereale si produceva anche a Fabrizia, Mongiana, San Nicola da Crissa) o misto di grano e granturco: “Tale miscela – osservava Baldacci – è di molto gradimento al gusto, ed è preferita dai contadini, i quali affermano di sentirsi sazi per più tempo con pane di farina miscelata, che non con farina di solo grano”. Fondamentali per l’alimentazione della popolazione erano pure i fagioli, con la presenza di una qualità rinomata, la paesana, costituita da un fagiolo “piccolo, con buccia rosso cupa e un punto nero”, molto saporita e di facile digeribilità, della quale “le conche di Serra S. Bruno, Mongiana, Fabrizia, Spadola e Simbario costituiscono le zone di più ricercata produzione”. Ma davvero imprescindibile era la funzione della patata, che aveva reso possibile “il popolamento recente di molte parti degli alti rilievi conquistati alla vita dell’uomo” e che aveva prodotto e reso redditizia la “trasformazione economica degli stessi terreni da bosco o da brughiera in terreno agrario”, tale da far sì che essa fosse entrata come “parte costitutiva della confezione del pane”.

Il “pane dei poveri” contro le carestie

Conferma sostanzialmente tale quadro don Bruno Maria Tedeschi (1830 – 1878) nel suo articolo su Serra per Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato del 1859, che dedica pure una bella pagina alla pesca della trota (“La trota che nella caldora esce dal suo nascondiglio per pascersi dei moscherini che brulicano su la superficie delle acque, viene inevitabilmente ghermita e presa”), in cui denuncia la diminuzione della disponibilità di tale pesce d’acqua dolce anche per effetto dell’uso smodato dei beni della natura fatto dall’uomo: “L’abuso di avvelenare i fiumi e le correnti con succhi velenosi di alcune piante ha decimato la famiglia delle trote; e se gli ingordi pescatori non saranno rigorosamente puniti, si distruggeranno affatto”. Certamente, un’agricoltura poco sviluppata è quella che emerge dalle osservazioni di Tedeschi, fortemente ostacolata da cause naturali (poca estensione e sterilità del terreno, clima sfavorevole) e non aiutata da motivazioni d’altro tipo, come “la pronunziata inclinazione dei Serresi piuttosto ai lavori meccanici, e la preponderanza dei bisogni della pastorizia, la quale in un territorio molto ristretto, invece di essere utile all’agricoltura, l’impedisce di avanzare d’un passo”. Centrale il ruolo della patata, denominata il “pane dei poveri”, anche per far fronte alle carestie successive alla sua introduzione, dovuta al priore della Certosa dom Pietro Paolo Arturi, come era possibile constatare, per converso, a vedere quanto era accaduto nella carestia del biennio 1763-1764 quando, in assenza di questo prodotto, “molti e molti perirono di fame, e non fu rara la tremenda necessità di divorare il cuojame ed altre stomachevoli sostanze per alimentare la vita”.  Per il resto, Tedeschi segnalava la coltivazione della segale e del grano nero (“detto volgarmente grano germano”) misto all’avena e la presenza di giardini intorno all’abitato (pochi, aggiunge) in cui crescevano piselli, fagioli, cavoli, broccoli, lattughe e talvolta anche peperoni e pomodori, che per la loro rarità non riuscivano a diventare “prodotti di economia”, chiudendo con una sapida nota di colore sul fatto che l’ultimo a trarne beneficio fosse il proprietario “perché una forma di comunismo inevitabile si appropria anzi tempo i prodotti”. Scarsezza, questa, che conduceva a una “sproporzione tra i prodotti ed il consumo” e a una “deficienza agricola” controbilanciata dalle manifatture e dall’industria. Dunque, povertà di risorse agroalimentari sul territorio, ma una povertà che si accompagnava all’operosità degli abitanti, tanto che, con un ossimoro, si poteva definire quella dei serresi, secondo l’efficace espressione di Tedeschi, una “povertà agiata”.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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