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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
La tela ottocentesca posta all'ingresso della biblioteca della Certosa di Serra (foto di Bruno Tripodi)
I solitari di Dio è il titolo del bel reportage dedicato un po’ di anni fa da Enzo Romeo ai certosini di Serra San Bruno per TG2 Dossier e il titolo focalizza, in maniera efficace, l’essenziale della vocazione monastica dentro la Certosa: la solitudine e il silenzio della cella sono i cardini di tale vocazione contemplativa, consacrata all’esercizio costante della preghiera. Solitudine e silenzio, aggiungiamo, che, tuttavia, non implicano una sorta di aridità e sterilità del cuore che prosciughi la qualità dei rapporti personali. E di quanto fossero importanti per Bruno le relazioni amicali se ne ha prova in sua celebre lettera nella quale, nel luogo raccolto del “giardino della casa d’Adamo”, sollecitava l’amico Rodolfo il Verde ad abbandonare i beni passeggeri del mondo e a indossare l’abito monastico, ritirandosi in quel “paradiso claustrale” che in una ulteriore epistola avrebbe descritto, come un “porto quieto e ben riparato” dentro il quale attendere alla contemplazione di Dio. Da questo punto di vista anche i nomi sono fondamentali, quelle volte che le fonti li fanno intravedere, per conoscere l’ambiente che era gravitato intorno a Bruno alle origini della Certosa. Pochi nomi di compagni con i quali intraprese il cammino nel 1084 verso Santa Maria di Casalibus, due nomi di monaci che si sarebbero rivelati fondamentali nei primi anni del monachesimo certosino, i nomi degli eremiti di Santa Maria della Torre che gli furono vicini nel momento della morte il 6 ottobre 1101. E insieme con questi nomi, storie di scelte comuni, di difficoltà condivise, di passaggi esistenziali tristi o gioiosi e anche interrogativi e dubbi che fanno da sfondo ai primi dieci anni di vita di quello che sarebbe stato l’ordine certosino.
“Aveva visto anche sette stelle” e loro erano sette
Piccoli nuclei di uomini alle origini, intanto, con una vocazione da eremiti all’orizzonte, i quali, come si dice (e sembra quasi un ossimoro), costituirono delle “comunità di solitari”. Se ne ha una fondamentale testimonianza del XII secolo nella Vita di S. Ugo di Guigo I, che narra il cammino di Bruno e dei suoi primi compagni verso il “deserto” di Chartreuse in Francia sotto la guida, appunto, del vescovo Ugo di Grenoble: “Non erano trascorsi tre anni da vescovo dopo il suo ritorno dal monastero - scrive Guigo, riferendosi a S. Ugo - che arrivò maestro Bruno, molto celebre per la sua fede e la sua sapienza, immagine ideale della nobiltà d’animo, della serietà e dell’integrità. Aveva come compagni maestro Landuino, che dopo di lui fu priore della Certosa, i due Stefano, di Bourg e di Die (che erano canonici di San Rufo, ma si erano uniti a Bruno per amore della vita solitaria, con l’autorizzazione del loro abate); Ugo, detto il cappellano, perché era il solo tra loro a esercitare le funzioni sacerdotali, e due laici, che noi chiamiamo conversi, Andrea e Guerino. Cercavano un luogo adatto alla vita eremitica e non lo avevano ancora trovato. Essi arrivarono, mossi da questa speranza e attratti dal soave profumo della santa vita del vescovo. Egli li ricevette con gioia e rispetto allo stesso tempo, parlò con loro ed esaudì i loro desideri; con il suo consiglio, il suo aiuto e la sua compagnia andarono nel deserto di Certosa e cominciarono a costruire. Intorno a quest’epoca Ugo aveva visto in sogno Dio costruire in un deserto una dimora per la sua gloria; aveva visto anche sette stelle che gli indicavano il cammino. Ecco, loro erano sette. Per questo motivo assecondò volentieri i loro progetti e anche quelli dei loro successori; fino alla sua morte aiutò con consigli e benefici gli abitanti della Certosa”. Il brano di Guigo è certamente prezioso per le informazioni che fornisce e che costituiscono dei punti fermi sulle origini dell’ordine certosino, pur se, a questo proposito, non tutti i dubbi vengono dissipati e alcune domande rimangono aperte. Sappiamo, intanto, che erano in sette - Bruno, quattro chierici e due laici - e sappiamo, come scrive Guigo, che uno soltanto, tra loro, era sacerdote, Ugo il cappellano. Bruno è da comprendere o no in quel “tra loro”? Bruno era o non era sacerdote? La questione è incerta, sono state avanzate diverse ipotesi, spesso in chiave problematica, ma, alla fine, non è possibile pronunciarsi in modo definitivo. Si tratta di una questione controversa, rispetto alla quale, qui, ci limiteremo a osservare che neppure l’elezione di Bruno all’episcopato di Reggio Calabria costituisce una prova in tal senso. È vero che lo stato sacerdotale era previsto, per chi si fosse apprestato a ricevere le insegne episcopali, tanto in una norma del Concilio di Benevento (1091) quanto nel Decretum Gratiani, ma nemmeno questo argomento, all’apparenza favorevole all’attribuzione a Bruno delle funzioni sacerdotali, deve considerarsi sicuramente inoppugnabile: la norma fu spesso violata, al punto che nella stessa chiesa di Reims si procedette, nel 1095, all’elezione di un vescovo - Rodolfo il Verde, l’amico di Bruno - che era canonico del capitolo cattedrale ma non sacerdote. Inoltre, nella stessa epoca nella quale Bruno venne nominato al vescovado reggino furono eletti diversi vescovi, in Sicilia, per i quali non esiste alcuna certezza sul loro stato sacerdotale. Un secondo elemento, spesso discusso per pronunciarsi sulla sua veridicità, è il sogno di S. Ugo, con le sette stelle che prefigurano l’arrivo di Bruno e dei primi certosini e che indicano al santo vescovo il cammino verso il luogo solitario. Probabilmente poco importa stabilire la “verità materiale” dell’episodio, perché, in questo come in altri casi consimili, ciò che davvero conta è la sua “verità storica”, il suo senso complessivo, che è quello di porre la nascita della prima Certosa sotto l’egida del favore divino. I segni celesti che si producono, lo stesso sogno profetico di cui S. Ugo è protagonista passivo, l’itinerario verso il deserto guidato dai sette “corpi” luminosi a cui corrispondono, nel “microcosmo”, i sette futuri certosini in devoto pellegrinaggio alla ricerca del luogo dove costruire una dimora per la gloria di Dio, sono, innanzitutto, da riconoscere come l’attestazione dell’origine sacra dell’Ordine, come la consacrazione giunta dal cielo della scelta esistenziale perseguita da Bruno. Da questi sette uomini, rappresentati con le sette stelle, muove i primissimi passi l’ordine certosino.
“Il mio unico desiderio, dopo Dio, è quello di venire da voi e di vedervi”
Poi due ulteriori figure, anch’esse fondamentali nel tempo delle origini, due di cui conosciamo il nome e il rapporto di amicizia e fraterna solidarietà che li legò a Bruno, il magister di cui le fonti hanno segnalato quel tipico tratto dei carattere mediante il quale univa alla severità del padre la tenerezza della madre. Diciamo, naturalmente, di Lanuino e di Landuino di Lucca, il primo successore di Bruno in Calabria dopo la sua morte il 6 ottobre 1101 e il secondo che gli subentrò presso la prima fondazione monastica nel Delfinato francese, allorquando Bruno venne chiamato da Urbano II a Roma nella curia pontificia. Un ruolo quello di Lanuino fondamentale anche sul piano più generale della conduzione dell’eremo calabrese di Santa Maria della Torre: “Vivente San Bruno – scrive Dom Maurice Laporte – su quindici carte dei principi, così come due bolle e una lettera di Urbano II e un privilegio di Pasquale II, quattordici si indirizzano congiuntamente a Bruno e Lanuino, li mettono […] sullo stesso piano, come se fossero entrambi, a egual titolo, superiori della fondazione calabrese. Tre atti si indirizzano al solo Bruno, due solo a Lanuino. Su questi diciannove diplomi, se ne trovano quattro che attribuiscono a Lanuino un ruolo attivo nell’amministrazione”. Il ruolo di Lanuino nei confronti di Bruno non si sarebbe potuto considerare come quello di un inferiore rispetto a un superiore o di un procuratore a fianco del suo priore, ma è da segnalare innanzitutto per la parte notevole che Bruno gli aveva attribuito nell’amministrazione dell’eremo, come se Lanuino fosse un suo autentico alter ego, essendo, peraltro, conosciuto in tal modo già dai contemporanei. Lanuino lo ritroveremo, nel drappello di eremiti che saranno intorno a Bruno nel momento della sua morte. Ma prima, tra la fine del 1099 e l’inizio del 1100, è il momento di Landuino, che, munito di una grande forza d’animo e pronto ad affrontare le difficoltà, non solo ambientali, del suo cammino, lasciò la Certosa francese per dirigersi verso Santa Maria della Torre in Calabria a qualche migliaio di chilometri di distanza e incontrare Bruno. La visita di Landuino costituisce un momento importante nella storia del monachesimo certosino, anche perché a lui Bruno avrebbe consegnato la Lettera ai suoi figli di Certosa, da portare con sé al rientro in Francia per consegnarla alla comunità che lì si era stabilita. La lettera, un documento persino commovente del monachesimo medievale, è intrisa di nostalgia per i suoi confratelli lontani, non nasconde i sentimenti di Bruno, ma li rivela con la sobrietà e la chiarezza che contraddistinguono il suo modo di parlare. Nessun sentimentalismo, poche frasi, parole che non si prestano ad equivoci: “Quanto a me, fratelli, sappiate che il mio unico desiderio, dopo Dio, è quello di venire da voi e di vedervi. E quando potrò, lo porrò in atto, con l’aiuto di Dio. Addio”. E come già la Lettera a Rodolfo, anche la missiva che Bruno scrive per i suoi confratelli lontani è una preziosa testimonianza sul significato e il valore che egli attribuiva all’amicizia. In particolare il paragrafo cinque, dove si sofferma sui mutui rapporti che legavano le “anime forti” che diedero vita alla nascita della Certosa: la preoccupazione di Bruno per il precario stato di salute di Landuino, al quale vorrebbe impedire di ripartire ma desiste perché sa che per lui, spiritualmente, sarebbe un male peggiore dei suoi guai fisici; le lacrime di Landuino al pensiero di poter correre il rischio di doversi allontanare per sempre dai compagni che ha lasciato in Francia; il vigore di Bruno nel farsi moralmente carico delle infermità dell’amico, invitando i confratelli della Certosa francese a fare qualsiasi cosa fosse necessaria per alleviare le malattie di Landuino, anche a costo di attenuare il rigore delle osservanze monastiche e di obbligarlo a sottoporsi alle cure. Ma, nonostante tutto, Landuino dalla Calabria avrebbe deciso di partire e sulla strada del rientro in Francia, lo ricorda la Cronaca magister, sarebbe stato catturato dall’antipapa e avrebbe trovato la morte lontano dal luogo solitario a cui, come aveva manifestato a Bruno, era suo solo desiderio ritornare. La lettera di Bruno, consegnata da qualcun altro, sarebbe giunta ugualmente ai “figli di Certosa”, quasi certamente insieme con la notizia dolorosa della morte di Landuino.
Intorno a un catafalco sette monaci
Un ultimo tassello, quasi un simbolo alla conclusione di questa storia. Nel corridoio d’ingresso della biblioteca della Certosa di Serra è conservata una piccola tela ottocentesca, di autore anonimo, che rappresenta la morte di San Bruno. Il centro della scena è occupato da un catafalco sul quale è adagiato San Bruno nella serenità del suo dies natalis, con le braccia incrociate sul petto e la testa circonfusa di sette stelle. Poggiati su un ripiano si vedono un teschio - tipico memento mori associato solitamente al santo – e un libro, attributo iconografico che ricorre in molte rappresentazioni figurative brunoniane. Intorno al catafalco sette monaci (mentre altri tre sono più distanti), colti in diversi atteggiamenti di fronte alle sante spoglie del loro amatissimo magister: uno impugna con le due mani, quasi a mo’ di stendardo, una croce piantata in terra; un altro è inginocchiato e sostiene una candela; un altro ancora tiene aperto il libro delle orazioni funebri e immerge l’aspersorio nell’acqua benedetta. La piccola tela non è altro che la replica di un quadro più grande, di identica composizione, collocato nel coro della chiesa conventuale della Certosa di San Lorenzo a Padula e diverse altre volte questa scena sarebbe stata rappresentata nelle raffigurazioni della vita di San Bruno. Ma (ovviamente) si sbaglierebbe a volerla leggere come una rappresentazione realistica. I monaci che circondavano Bruno, al momento del suo trapasso, non erano sette e neppure dieci. E una fonte degli inizi del XII secolo, intitolata Nomina Religiosorum, qui morti sancti Patris Brunonis interfuerunt, ci consente di conoscerne il numero (trenta) e i nomi, a partire dai diciotto che erano sacerdoti, tra i quali Lanuino, Lamberto, Landulfo, Anselmo, Ugo, Fulco, Bernardo. Poi, erano presenti altri dodici che non avevano assunto lo stato sacerdotale e tra essi Gerardo, Gualtiero, Leone e anche quel Meraldo (o Maraldo, secondo un altro testo medievale che parla di questo personaggio), autore di quel Ritmo sulla nascita di Ruggero II, figlio di Ruggero I e di Adelasia del Vasto, da cui sarebbe scaturita la leggenda agiografica del battesimo del piccolo Ruggero a opera di Bruno. Con un numero, si vorrebbe dire alla fine, il sette, in terra e in cielo, a fare da filo conduttore in tutta questa lontana vicenda.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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