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Martedì, 23 Aprile 2019 14:46

I privilegi in carcere e le talpe al servizio dei clan vibonesi

Scritto da Redazione
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Emergono nuovi dettagli dai verbali del collaboratore di giustizia Raffaele Moscato, personaggio di spicco all’interno del clan dei Piscopisani che, in poco tempo, è riuscito a scalare le gerarchie della consorteria mafiosa della frazione di Vibo Valentia. Verbali, quelli del pentito, che stanno facendo tremare un po’ tutti, non solo i clan vibonesi, ma anche personaggi insospettabili, come imprenditori, politici e colletti bianchi, i quali sarebbero stati collusi o al servizio della cosca di cui ha fatto parte per cinque anni e che aveva agganci anche tra le forze dell’ordine.

«Noi - sono le dichiarazioni di Moscato, riportate dal Corriere della Calabria - abbiamo sempre saputo che c’erano le telecamere in piazza a Piscopio, così come sapevamo tante altre cose sulle indagini che venivano svolte; c’erano anche appartenenti alle forze dell’ordine che ci davano notizie. Sapevamo, ad esempio, che ad essere indagati, inizialmente, per l’omicidio Patania eravamo io, Davide Fortuna e Scrugli». A rivelarlo ai Piscopisani sarebbe stato un carabiniere in servizio a Vibo Valentia nel 2011 che pare avesse un rapporto confidenziale con uno dei Piscopisani, Giovanni Battaglia. Confidenza, questa, che era stata riferita a Battaglia durante la festa della Madonna del Rosario a Bagheria, vicino a Palermo. Il pentito non aveva avuto informazioni sull’identità della talpa ma sapeva che un carabiniere che lavorava a Vibo aveva rapporti con Battaglia. Una sera, nel novembre del 2011, in un pub di Vibo Moscato aveva incontrato questo carabiniere e Rosario Battaglia, che era assieme al pentito, aveva offerto la cena al militare che era lì con moglie e figlio. «Il carabiniere disse a me che sarei stato il primo ad essere arrestato in un’operazione antidroga che riguardava la zona di Vibo Marina e Pizzo». Il blitz, poi, ci fu veramente, ma Moscato non venne coinvolto: «Rosario Battaglia – prosegue il pentito – ebbe a riferirmi che questo carabiniere lo informava anche di perquisizioni che stavano per essere eseguite. Il carabiniere comunque chiedeva a noi di fornirgli informazioni sulla disponibilità di armi e droga di cosche avversarie per fare carriera, ma noi non gliene abbiamo mai fornite». Non solo: il militare, infatti, avrebbe riferito ai Piscopisani anche informazioni sul mezzo con cui era stato compiuto il tentato omicidio di Rosario Battaglia e su microspie e telecamere piazzate a Piscopio. Ma quelli delle forze dell’ordine non erano certo gli unici “occhi” puntati sulla frazione di Vibo: «Anche noi avevamo telecamere posizionate per il controllo del territorio a Piscopio».

Nei verbali del collaboratore di giustizia, però, figurano anche i nomi di diversi avvocati. Tra questi, ad esempio, c’era chi si preoccupava di rassicurare i capi del clan che, in un determinato periodo, non avrebbe subito arresti; così come c’era chi li avvisava del fatto che alla Dda di Catanzaro qualcosa stesse «bollendo in pentola». Un altro legale, sempre a giudizio di Moscato, avrebbe ricevuto uno yacht come «corrispettivo professionale» per la restituzione di beni – tra cui proprio l’imbarcazione in questione – che erano stati sequestrati a un esponente delle cosche di Vibo. E tra i colletti bianchi vibonesi non sarebbe neanche mancato chi era disposto a fare da “ambasciatore” per gli uomini dei clan: «Posso riferire di una prassi piuttosto consolidata – spiega il pentito – che è quella di far avvicinare coloro i quali rendono dichiarazioni contro la criminalità organizzata vibonese e di far suggerire loro anche da insospettabili colletti bianchi di ritrattare».

Moscato parla anche del carcere di Catanzaro che, in realtà, sarebbe «un circolo dove la gente gioca, come del resto è anche Frosinone»; mentre quello di Vibo Valentia è un «un carcere duro», perché «le guardie sono serie». Proprio nel penitenziario del capoluogo, il boss delle Preserre Bruno Emanuele aveva a disposizione «un filo di quelli che si usano per tagliare il ferro». Mentre i Piscopisani, detenuti nello stesso penitenziario, potevano perfino pasteggiare con «la grappa barricata». Le famiglie di ‘ndrangheta del posto dunque avevano dei referenti che nel carcere avevano un preciso ruolo di collegamento tra le guardie e i detenuti che dovevano ricevere i “doni” dall’esterno.