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Domenica, 08 Aprile 2018 12:10

L'INEDITO | Mastro Bruno Pelaggi sconosciuto

Scritto da Tonino Ceravolo
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SERRA SAN BRUNO - La definizione di Mastro Bruno Pelaggi come “poeta-scalpellino” è stata ripetuta talmente tante volte da essere diventata, di fatto, un luogo comune, qualcosa che sembra associare due elementi incongrui (il poeta e lo scalpellino) per far venire fuori una terza figura (ibrida?) che li compendia entrambi, come per dire che egli era diventato l’uno (poeta) nonostante l’altro (il mestiere di scalpellino) o per sottolineare la naïveté della sua produzione poetica, la semplicità e l’autenticità ingenua della sua ars poetandi.

Senza contare che l’identità di scalpellino parrebbe quasi limitare e depotenziare quella del poeta, circostanza di cui lo stesso Mastro Bruno sembrava essere consapevole se nella poesia Don Bruninu Chimirri e li sirrisi, quasi scusandosi per le sue imperfette capacità poetiche, che gli avrebbero impedito di tessere un più adeguato elogio di quel grande serrese, scriveva: “Chi bulivu cchiù di Mastru Brunu? / A ‘stu puntu arrivau la forza mia, / Jìo poeta non su’, ca scarpidhìnu, / Ma dicu sempi: «Viva Don Bruninu!»”. E che fosse così fortemente legato a quell’identità sono ancora le sue stuori a testimoniarlo, per esempio quando in O chi luci, o chi luci, o chi alligrizza per rafforzare l’idea della sua stanchezza morale verso i serresi, con i quali si zapperebbe nell’acqua e si seminerebbe nel vento, ricorre a un’altra stanchezza, quella fisica, provocata dal suo duro lavoro di scalpellino impegnato nella ricostruzione del monastero certosino: “Jìo sta canzuni vurrìa mu la stampu, / ma a ‘stu paisi si perda lu tiempu. / Mo’ già la sira mi ricuògghiu stancu, / ca vàjiu mu fatigu allu cummientu”. Eppure questo mestiere duro, difficile, adatto a persone forti, era in grado di suggerirgli anche immagini intrise di potente carica poetica, mediante le quali celebrava la Vergini Maria servendosi proprio del parallelismo tra il poeta e lo scalpellino: “Lu cuori scoppia e l’uocchi lacrimannu. / Quandu l’anima è preda di l’assillu / non sempi li pinzieri lisci vannu. / Tosta è la petra e muodhu esti lu ‘ndrillu! / Ma si la vina tièmpiru ‘ntra st’annu / e truovu li cchiù miègghiu paraguni, / sientu cà Ti cumbinu ‘nu suniettu / ch’anura a mmia, la Serra e lu dialettu”. Il poeta come lo scalpellino, la materia poetica ostile e ribelle come la granitica pietra che non vuole cedere sotto i colpi dello scalpello.


(Mastro Bruno Pelaggi, a destra, sulla porta della sua casa nel rione Zaccanu, a Serra)

Per un serrese dell’epoca procurarsi da vivere facendo lo scalpellino, come Mastro Bruno, non poteva certo considerarsi una scelta anomala. Già nel catasto onciario di Serra del XVIII secolo sono attestati 19 scalpellini, con una nettissima prevalenza della famiglia Pisano, pur se altri mestieri sono meglio rappresentati, quali il mandese (con 71 esponenti), il ferraro (con 73), il falegname (con 56), il bracciale (con 372), il carbonaro e il giornaliero di forgia (con 31) e persino il sacerdote (con 33 consacrati). E molti sono i nomi di scalpellini che è possibile rintracciare nelle petizioni indirizzate alla Certosa o all’architetto Pichat alla fine del secolo successivo, nei frangenti della ricostruzione ottocentesca del monastero, in qualità di sottoscrittori delle istanze prodotte a tutela del lavoro dei ceti operai cittadini. Proprio in tale contesto occorre collocare i due documenti, sino a oggi inediti, che riguardano l’attività di scalpellino di Mastro Bruno Pelaggi e che sono stati rintracciati dallo scrivente durante l’esame dei fondi archivistici relativi alla documentazione certosina ottocentesca. Il primo documento è una scrittura privata, sottoscritta il 4 giugno 1888, con la quale Bruno Pelaggi e Stefano Pisani si impegnano, in solido, a costruire le opere in pietra di sei finestroni e due facciate del refettorio della Certosa, un documento di particolare importanza perché reca in calce la firma autografa del Pelaggi replicata due volte, a sottoscrizione del contratto e come attestazione di ricevuta, il 4 agosto successivo, della somma totale di lire 800 a titolo di compenso per il lavoro svolto. Il contratto testualmente recita: “L’anno milleottocentoottantotto il giorno 4 giugno in Serra San Bruno nella Certosa dei Santi Stefano e Bruno. Colla presente privata scrittura redatta a norma di legge il R.ndo Francesco Ciano Priore, nella qualità di proprietario e padrone della suddetta Certosa da una parte; e dall’altra Bruno Pelaggi fu Gabriele e Stefano Pisani di Bruno esecutori d’opere ed impresarii, tutti residenti in Serra S. Bruno sono divenuti alla seguente contrattazione. Essi Pelaggi e Pisani assumono solidariamente l’appalto per costruire le opere in pietra secondo ogni regola d’arte di sei finistroni e due facciate del refettorio del suddetto monastero, coi seguenti patti: 1o Il lavoro dovrà essere eseguito in due mesi a far tempo da oggi su pietra granita scelta, altrimenti le opere saranno rifiutate. 2o Dovrà essere eseguito giusta il disegno tracciato nella sua grandezza naturale dall’artefice Alfonso Scrivo nella pariete del corridoio dei frati di essa Certosa. 3o Dovrà essere collaudato per ogni settimana dall’incaricato dal Signor Ciano, sia per la qualità della pietra, che per la forma costruzione e dimensione dei pezzi, i quali debbono corrispondere a quelli segnati in rosso nel suddetto disegno di grandezza naturale, e non possono i cennati appaltatori fare innovazioni o modifiche senza l’approvazione dell’incaricato della Certosa, il quale è scelto a piacere del Signor Ciano. 4o Le centine per le cornici ed opera curva saranno somministrate dal suddetto P. Ciano. 5o I cennati assuntori restano obbligati, siccome alle costruzioni, eziandio allo scavo del granito, all’assetti e ponimento in opera. Il Signor Ciano è soltanto tenuto pel trasporto del granito dalla montagna alla Certosa. 6o In caso d’inadempienza qualunque, si per tempo stabilito circa l’esecuzione, che per ogni altro obbligo come sopra pattuito, essi appaltatori saranno tenuti di pagare una multa di lire cinquanta a beneficio d’esso Signor Ciano per ogni finistrone o facciata che fosse malamente o tardivamente costrutta; e potrà il Signor Ciano, senza bisogno di sentenza del Magistrato, far costruire l’opera a maggior spesa o danni a carico degli assuntori, i quali restano eziandio obbligati a titolo di danni ed interessi di rimborsare al Signor Ciano le spese di tassa e sopratassa per la registrazione del presente atto. Il tutto solidariamente. 7o Il prezzo della pietra e del lavoro tutto compreso incluso il ponimento dell’opera è convenuto per lire 800,00; delle quali lire 200,00 vanno pagati in atto, e gli assuntori ne fanno solidale quietanza; e le altre lire 600,00 saranno pagate ad entrambi in altre tre rate uguali cioè la prima a 20 corrente, la seconda al 15 luglio prossimo e la terza dopocché l’opera sarà situata bene inteso che i pagamenti potranno essere sospesi nei casi d’inadempienza di cui all’articolo 6o. 8o Il presente contratto per tutti gli effetti di Legge e d’indole commerciale. Tutte le parti si sono sottoscritte”. Seguivano le firme di Dom Ciano e dei due “assuntori” e la data della stipula e, immediatamente dopo, la dichiarazione di aver ricevuto la somma per la prestazione dell’opera per la quale Pelaggi e Pisani si dichiaravano soddisfatti. A oltre otto anni dopo risale il secondo documento, che non è autografo neppure nella firma, datato 8 novembre 1896 e indirizzato da Pelaggi all’architetto dei lavori della Certosa François Pichat:

“Sicuro di rendermi interprete dei suoi nobili sentimenti e della sua bontà di cuore, ardisco inviare a lei la seguente dimanda, convinto se non altro di aver perdonata la mia arditezza. Sono ormai passati due anni e quattro mesi, dacché io indefessamente lavoro dirigendo i maestri scalpellini in cotesta Certosa, e se dico di non aver avuto mai una preferenza su gli altri, non temo di dire una bugia. Ebbene, mentre io debbo lavorare come tutti gli altri operai, debbo nello stesso tempo adempiere ad un altro ufficio più importante ancora, essendo il mio lavoro di due specie; materiale ed intellettuale. Si anche intellettuale perché debbo continuamente pensare a tutto ciò che debbono fare gli operai, tagliare le sagome e quanto altro richiede la direzione di un lavoro abbastanza difficile e complicato. L’ufficio mio, benché non facile, ha sempre soddisfatto pienamente il Sig. Impresario e gli altri, tanto che questi furono larghi a contribuirmi molti beni e molti bravo: ma io, Sig. Architetto, questi beni e questi bravo me li sento continuamente ripetere dalla mia coscienza, perché alla mia attenzione aggiungo la capacità di eseguire, e son sicuro di fare il mio dovere. Sig. Architetto, in ogni stabilimento, in ogni classe di operai, in ogni specie d’impiegati, si sogliono concedere a volte dei premi, delle gratificazioni, delle ricompense a coloro i quali o per merito o per altro si fanno distinguere. Qui nella Certosa mai una ricompensa, mai una gratificazione mi ha richiamato alla mente il posto che occupo! E questo non basta: si è arrivato al punto di togliermi financo quell’ora, quella mezz’ora che il tempo ci costringe a non poter lavorare, senza pensare che io in quel tempo debbo occuparmi su ciò che bisognerà fare l’indomani; e quando il giorno tutto, si passa alla Certosa, io son costretto ad impiegare porzione della notte, pur di compiere e bene il mio dovere. Sig. Architetto, Ella ha già compreso che io voglio raccomandarmi vivamente alla sua rettitudine, alla sua cortesia, alla sua bontà verso noi, e io son sicuro che Ella informandosi non resterà indifferente alle mie giuste pretenzioni, alle mie giuste lagnanze, che la coscienza mi detta a suggerirvi e che mi sarà concessa qualche ricompensa giustamente meritata. Io non aggiungo più nulla perché Ella è bastantemente gentile a premiare i giusti meriti, e a perdonarmi per il disturbo che le arreco. Fiducioso che la mia dimanda venga accolta, le anticipo i più sentiti ringraziamenti e ossequiandolo coi segni della più alta stima mi dichiaro
     Suo devotissimo
     Bruno Pelaggi”.

Lettera, questa, per la cui confezione, al di là della mancata autografia, sembra più che legittimo nutrire qualche dubbio nella sua assegnazione a Pelaggi, poiché se certamente rifletteva il suo pensiero e il suo sentire la stessa cosa non sembra di poter affermare per la ricercatezza dell’eloquio e per la pretenziosa forma di taluni lemmi, incluso quel pronome di terza persona “Ella” che pare provenire di peso da altri ambienti sociali, diversi da quello degli scalpellini. E a essi, alla fine, si ritorna per dire come quel noto appellativo di “poeta-scalpellino” in fondo, da quello che si è visto finora, si potrebbe anche rovesciare per lasciarlo affiancare da altra definizione, che potrebbe riconoscere il Pelaggi pure come “scalpellino-poeta”, mettendo, per una volta, in primo piano quell’attività alla quale Mastro Bruno sacrificò la propria esistenza.