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Giovedì, 07 Dicembre 2017 12:26

"Pietranera", azienda piegata al volere del clan di Badolato

Scritto da Redazione
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La polizia di Stato di Catanzaro ha arrestato stamattina 7 esponenti della cosca Gallelli, operante nel basso versante jonico catanzarese, autori di diverse estorsioni.

Le ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip distrettuale di Catanzaro, su richiesta della Procura della Repubblica, riguardano Vincenzo Gallelli, 74enne, detto “Cenzo Macineju”; Andrea Santillo, 57enne, detto “Nuzzo”; Antonio Santillo, di 28 anni; Antonio Gallelli, di 37; Francesco La Rocca, di 51 anni; Giacomo Nisticò, di 56 anni e Giuseppe Caporale, di 36.

Le persone indagate, tutte del comprensorio soveratese, sono ritenute colpevoli, a vario titolo, di più episodi di estorsione aggravata dalla metodologia mafiosa, nei confronti di due imprenditori agricoli con attività ubicata nel Comune di Badolato.

Le attività investigative, condotte dalla Squadra Mobile di Catanzaro - coordinate dalla Procura distrettuale antimafia di Catanzaro, nelle persone del procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e del procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla, con la supervisione del procuratore capo Nicola Gratteri - hanno permesso di accertare che il capo cosca 74enne Vincenzo Gallelli ha imposto, per oltre vent’anni, la “guardiania” sulle proprietà di una nota famiglia di Badolato, fissando altresì le modalità di sfruttamento dei terreni e costringendo, di anno in anno gli imprenditori, a concederli a pascolo ed erbaggio a propri familiari, nipoti e pronipoti, impedendone in tal modo il libero sfruttamento commerciale da parte dei legittimi proprietari.

Le investigazioni, effettuate mediante l’attivazione di intercettazioni telefoniche ed ambientali, hanno fatto emergere, in particolare, come gli imprenditori agricoli, vittime delle pretese estorsive, per il periodo temporale che va dalla metà degli anni ’90 all’anno 2008 siano stati costretti ad accettare la presenza nelle loro aziende quale “custode” di Vincenzo Gallelli il quale, in virtù delle doti criminali rivestite, garantiva loro una  “tranquillità ambientale”, costringendoli però a donargli quale controprestazione, numerosi terreni, nonché ad affidare la gestione e lo sfruttamento di altri fondi agricoli a sé od ai suoi più prossimi familiari, quali il pronipote trentasettenne Antonio Gallelli con divieto, di fatto, di esercitare, sui terreni attività non concordate con il capo cosca.

In particolare, ogni qualvolta le vittime tentavano di dare corso ad una produzione agricola intensiva, i loro raccolti venivano completamente distrutti dagli animali posseduti dai membri della famiglia Gallelli, lasciati abusivamente al pascolo sui terreni coltivati.

La pressante condizione di assoggettamento ed omertà imposta ai titolari dell’azienda agricola li costringeva inoltre a modificare e rivedere i termini e le condizioni contrattuali stabiliti con altri operatori agricoli, la cui presenza doveva rappresentare una sorta di argine alle pretese ed ai condizionamenti di Vincenzo Gallelli. Quest’ultimo, per la realizzazione dei propri intenti, utilizzava il nipote Antonio Santillo, i pronipoti Antonio Gallelli e Giuseppe Caporale, paventando per il tramite di Franco La Rocca e del genero Giacomo Nisticò, il verificarsi di gravissimi atti di sangue qualora le direttive del capo cosca non fossero state seguite.

Il contesto di totale soggezione psicologica nel quale si erano venuti a trovare le vittime, induceva le stesse ad omettere per anni di sporgere formale denuncia contro l’ arbitraria ed abusiva occupazione dei terreni nonché l’utilizzo dei mezzi agricoli che nel corso degli anni i Gallelli avevano attuato anche mediante minacce al fattore dell’impresa agricola.

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