Giovedì, 06 Dicembre 2012 16:17

Il menu dei boss? A base di aragoste e ricotta calda

Scritto da Redazione
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mini atlantedellemafieRicotta calda con pane raffermo, aragoste e capocollo. Combinazioni forse insolite ma che raccontano molto di quel mondo fatto di valori arcaici tipici del mondo contadino e di feticci del lusso su cui la ndrangheta costruisce la propria immagine. Non esiste certo un codice alimentare mafioso che preveda determinati cibi o ne proibisca altri ma all’interno di quelle che sono le abitudini alimentari dei capibastone emergono chiaramente i due aspetti che caratterizzano le mafie oggi: il rispetto della tradizione (che si evince anche dalla sopravvivenza dei riti di affiliazione) e l’aspetto internazionale che le mafie sono riuscite a conquistare.

Quello che però conta di più non è tanto quello che si mangia ma l’aspetto conviviale. Cene e banchetti sono momenti fondamentali per stringere alleanze, studiare strategie. I matrimoni, così come accadeva nelle famiglie nobiliari di un tempo, possono diventare occasioni consolidare rapporti tra clan, così come i battesimi e le cresime forniscono l’occasione per creare parentele “spirituali” che si trasformano a loro volta in nuovi patti, in nuove alleanze. Tutto a tavola. E’ la tavola il vero foglio bianco su cui si scrivono i contratti delle mafie.

A parlarci di questi aspetti e a raccontarcene i risvolti non solo antropologici ma anche storici e culinari è Gianfranco Manfredi, giornalista esperto in eno-gastronomia, nel primo volume del documentatissimo “Atlante delle mafie” edito da Rubbettino e lanciato in questi giorni in libreria.

L’atlante curato da Enzo Ciconte, Francesco Forgione e Isaia Sales è suddiviso in tre volumi la cui pubblicazione verrà completata nell’arco di tre anni. Il primo volume tocca già argomenti di grande interesse e attualità: dalla storia della Camorra, al rapporto tra mafie e Chiesa, dai giudici antimafia allo scandalo calciopoli.

Il volume

A cosa è dovuto il successo plurisecolare delle mafie italiane? E come mai viene definita “mafia” ogni violenza privata che ha successo nel mondo? L’Atlante delle mafie prova a rispondere a queste due domande. Partendo dalla messa in discussione dal paradigma interpretativo dell’esclusività della Sicilia nella produzione di ciò che comunemente si intende per mafia. Se un fenomeno, nato in Sicilia nell’Ottocento, ha avuto una così lunga durata, affrancandosi dalle condizioni storiche e territoriali che ne resero possibile la sua originaria espansione e proiettandosi così agevolmente nella contemporaneità (divenendo addirittura un modello vincente per tutte le violenze private del globo) non è utile continuare a descriverlo solo come un originale prodotto siciliano. Il modello mafioso, infatti, si è dimostrato riproducibile nel tempo e in altri luoghi, non più specifico solo della Sicilia e del Mezzogiorno d’Italia. Con il termine mafia si deve intendere oggi un marchio di successo della violenza privata nell’economia globalizzata. Con questa ottica, l’Atlante delle mafie passa in rassegna le “qualità” criminali che differenziano nettamente i fenomeni mafiosi dalla criminalità comune e da quella organizzata. Esse vengono sintetizzate in cinque caratteristiche: culturali, politiche, economiche, ideologiche e ordinamentali. Secondo i curatori, si può ritenere mafia la “violenza di relazioni”, cioè una violenza in grado di stabilire contatti, rapporti, e cointeressenze con coloro che detengono il potere ufficiale, sia politico, economico e religioso, che formalmente dovrebbero reprimerla e tenerla a distanza. Perciò viene contestato ampiamente il luogo comune delle mafie come antistato, come antisistema. È stato proprio questo luogo comune a tenere per anni in ombra il vero motivo del successo delle mafie. Mentre alcune forme di violenza e di contestazione armata del potere costituito si sono manifestate contro le leggi e contro la visione unitaria dello Stato (il brigantaggio nell’Ottocento, le rivendicazioni etniche-territoriali e il terrorismo politico nel Novecento) e perciò alla fine sono state sconfitte, le mafie hanno usato una violenza non di contrapposizione, non di scontro frontale, ma di integrazione, interna cioè alla politica e al potere ufficiale. Dunque, per mafia si deve intendere una violenza di relazione e di integrazione. In questa loro caratteristica consiste la ragione del loro perdurante successo.

Antonio Cavallaro

Ufficio Stampa RUBBETTINO EDITORE

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