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Giovedì, 01 Novembre 2012 17:28

Figli di un Dio minore. Le morti che non fanno notizia

Scritto da Salvatore Albanese
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mini figli_di_un_dio_minoreIl vento piange. La terra asciuga. Le urla e le lacrime rimbalzano tra i vicoli vuoti del centro abitato. Tra le case e le strade. Poi si frantumano. Si sciolgono nel silenzio. Gemono. Si spengono. Le vite non hanno ovunque lo stesso peso, figuriamoci le morti. L’unità di misura cambia al variare delle latitudini geografiche, in una nazione spaccata nei sentimenti e discorde nelle opportunità.  C’è la vita di chi muore ammazzato in una pineta di Ripe di Civitella, in fondo ad un pozzo nella campagna di Avetrana o tra la fitta vegetazione di un campo incolto alle porte di Brembate Sopra. E poi ci sono le “altre” morti. Quelle che non valgono la prima pagina dei quotidiani, il plastico di “Porta a Porta”, le poltrone bianche di “Domenica In” o l’indignazione sintetica della Barbara D’Urso di turno. Storie di microfoni spenti che uccidono ancora. Per la seconda volta. Come per Filippo Ceravolo, 19 anni, innocente. Sparato in un agguato ‘ndranghetista fra Pizzoni e Soriano Calabro. A bordo di una macchina che non era la sua macchina.

Un omicidio freddo e brutale che si consuma lento nell’indifferenza più totale dei media. 
Successe anche a Serra San Bruno, 3 anni e 20 giorni fa, a Pasquale Andreacchi, poco più che 18enne, gigante buono col sorriso da bambino cresciuto di fretta a pane e cavalli. Succede in Calabria, nel nero più nero dello sprofondo Sud, dove le macchine da scrivere non hanno la forza di andare oltre la barriera di silenzio che drena quello che non fa notizia. Filtra gli “scoop”. Seleziona ciò che è di interesse nazionale e ciò che invece non ha la forza di esserlo. Perché la notizia è un prodotto e se non piace non vendi. Succede nel Vibonese dove è quasi normale che due ragazzi, anime bianche, vengano martoriati per storie di cavalli o di strani passaggi. E nessuno ne parla, come se non fossero mai esistiti. Come adesso che, appunto, quelle anime non esistono più. Ne rimane  la rabbia ed il ricordo. Negli occhi, nel cuore. Nella mente offuscata dalla cruda consapevolezza che esistono morti di serie A e morti di serie B. Figli e figliastri.

Si muore presto in Calabria. Senza mai aver fatto del male a nessuno. Avvolti nel silenzio più assoluto. Perché per i giornali, la politica, la Chiesa, lo Stato le vite del meridione valgono meno di quella di un morto ammazzato nell’hinterland dell’inquieta Milano o sul ciglio del grande raccordo anulare romano. Perché le “nostre” sono vittime di una terra franca, dominata dalla ‘ndrangheta e dal malaffare. E quindi se alle redazioni dei giornali arrivano le morti di giovani ammazzati quaggiù, le si cestina automaticamente. Perché se vieni ammazzato da Napoli a Palermo, al di sotto di quell’irreale linea di dignità, per gli addetti all’informazione, sei solo: “uno in meno” e magari se ti hanno ucciso “un motivo ci sarà”. E poco importa se si tratta di ragazzi per bene. Il sangue caldo, i teschi perforati dalle pallottole, le ossa lucide come se fossero state sbranate dai cani randagi non raccontano nulla. Perché niente e nulla può bucare quel silenzio, quell’indifferenza nazionale. Il vomito di un dolore che non fa notizia. Il buio di morti fragili come il battito d’ali di una mosca.

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