Lunedì, 23 Aprile 2012 18:18

Chi non ha peccato paghi la prima Imu

mini imu-toreFra i tanti scarabocchi ideati da Monti c’è l’Imu, imposta pronipote dell’Ici ma molto più robusta ed odiosa, che grava sulle proprietà immobiliari di tutti i cittadini. Tutti, senza alcuna eccezione. Compresi i più poveri, gli anziani ricoverati negli ospizi (che pagheranno l’Imu come seconda casa) e quelli che ancora per la casa pagano il mutuo (e quindi si troveranno a pagare una tassa su un bene di cui non sono ancora proprietari). Notizia nella notizia è che a pagare l’imposta dovrebbe essere anche Sacra Romana Chiesa. Ma solo per gli immobili a scopo di lucro e non per i luoghi di culto. Da qui il via alle strategie elusive della “Benedetto XVI Spa”.

In men che non si dica è tutto un fiorire di cappelle. In particolare a Roma, dove si sta diffondendo l’innovativo fenomeno delle Chiese aperte. Esatto: aperte. Anche e soprattutto di quelle fino ad ora accessibili ai fedeli solo durante l’orario delle messe. Improvvisamente acquasantiere, navate ed altari sono messi a disposizione, 24ore su 24, dei flash fotografici di frotte di turisti poco devoti e tanto rumorosi. I visitatori entusiasti applaudono la scelta innovativa del Vaticano, ma ne ignorano le ragioni meramente pragmatiche. La genialità della chiesa sta nell’aver trasformato decine di immobili in luogo di culto, semplicemente aprendo le porte al pubblico. Ma la cosa che fa più rabbia è l’artificio ingegnato per esentare le scuole cattoliche dal pagamento dell’Imu: le rette salatissime sarebbero in realtà semplici finanziamenti alla comunità religiosa che manda avanti la scuola. Come se ogni studente facesse una donazione spontanea.

La corsa frenetica dei soldati di Dio a cercare alibi per non pagare le tasse è un insulto alla dignità di tutti gli italiani. Un pugno dritto allo stomaco a quei padri di famiglia che non hanno scorciatoie da battere per sottrarsi a questa scellerata Imu. Non è concepibile che sia proprio un’istituzione spirituale ad elucubrare escamotage utili a bypassare le restrizioni che i cittadini, anche i meno abbienti, invece sono costretti a subire. Ne otteniamo che chi dovrebbe prendersi cura delle anime della gente, si rifiuta di contribuire alle loro necessità per preservare i propri privilegi, mentre i cittadini rimangono costretti ad un grigiore medievale perpetuo, schiacciati dall’avidità di papi, porporati, chiese e cattedrali. Consacrate al culto del Dio denaro. 

Pubblicato in LO STORTO

mini brigante-damaIl “decennio francese”, il periodo storico iniziato, nel 1806, con l’invasione napoleonica del regno di Napoli e concluso, nel 1815, con la cattura e la fucilazione di Gioacchino Murat, rappresenta, anche per la Calabria, un’epoca particolarmente densa di avvenimenti. Ogni angolo della regione venne investito da un generale stato di agitazione. Ad esacerbare gli animi, da una parte, l’oro inglese, dall’altra, gli agenti borbonici che dalla Sicilia alimentavano l’ansia di rivincita di re Ferdinando e della regina Carolina. A fare il resto lo sprezzante atteggiamento della soldataglia francese che, come ricorda Sharo Gambino, arrivava «in Calabria convinta di essere giunta tra i “savauges d’Europe”». Le continue vessazioni e gli oltraggi subiti scatenarono il risentimento di una popolazione destinata ad alimentare il fenomeno del brigantaggio. In mezzo rimase la “zona grigia” quella che più di ogni altra subì gli effetti nefasti di una lotta senza quartiere. Il Brigantaggio e le ribalderie dei francesi non risparmiarono neppure Serra San Bruno, la cittadina della certosa, brutalmente saccheggiata nel 1807. Sotto l’incalzare del comandante della gendarmeria, il “crudele” Voster, per utilizzare la definizione usata ne “La platea”, la cronistoria cittadina redatta dai cappellani della chiesa Matrice, la guardia civica si spingeva ripetutamente nei boschi a dare la caccia ai briganti. A causa dell’impari lotta il loro numero andava assottigliandosi. Il 2 marzo 1811, tre briganti, nella speranza di ottenere un salvacondotto, si rivolsero a tale “Raffele Timpano del Paparello”. In assenza del Voster il comando della piazza era stato affidato al tenete di gendarmeria, Gerard ed al maresciallo Ravier. Il Paparello, accompagnato dal giudice di pace, Bruno Chimirri, dal comandante della guardia civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, recatosi presso l’alloggio dei due comandanti francesi li trovò completamente ebbri. Consegnata una pistola ciascuno al Peronacci ed al Chimici, si misero in marcia. Giunti presso la baracca in cui si trovavano i briganti, vennero freddati nel tentativo di fare irruzione. Insieme ai due gendarmi trovò la morte il serrese Domenico Iorfida. Gli altri, rimasti incolumi, attesero l’arrivo della guardia civica che uccise i malfattori. In seguito all’accaduto un gendarme si recò Nicastro per informare il generale Manhes. I serresi inviarono una loro delegazione incaricata di presentare un circostanziato rapporto. «Ricevuta una lettera stilata dall’intendente – si legge ne “La platea” – il generale che “non era un uomo ma un diavolo vestito di carne umana”, strappò la missiva senza neppure leggerla». Trascorsi un paio di giorni accompagnato da una ventina di dragoni, giunse a Serra il generale Manhes. Prima di partire, il 10 marzo 1811, oltre l’impiccagione di Raffele Timpano, dispose l’esilio dei preti e la chiusura delle chiese. Il bando con il quale venivano preclusi i luoghi di culto stabiliva: «Le chiese tutte del comune di Serra saranno serrate, e le campane legate, poiché il culto sarà sospeso in esso comune fino alla distruzione del brigantaggio. In conseguenza non vi sarà amministrazione di sacramenti, e perciò i preti tutti del comune di Serra si porteranno a Maida finché i loro briganti saranno distrutti». Il proclama, nel paese definito da Norman Douglas “il più bigotto della Calabria”, non tardò a manifestare gli effetti sperati. Alla partenza di Manhes i serresi si misero sulle tracce dei briganti i quali, a corto di vettovaglie, furono costretti a divorare i loro compagni morti. “Venne rinvenuto il cadavere di un capo brigante al quale era stata asportata la carne delle cosce”. A fine marzo 1811 dei briganti alla macchia ne erano rimasti solamente due, Pasquale Ariganello e Pasquale Catroppa, detti i due Pasquali. Grazie ad una taglia di 200 ducati la loro avventura si concluse il 12 aprile 1811, quando vennero uccisi nel sonno da due pastori di Pazzano. I serresi, informati dell’accaduto il 14 aprile, reclamarono immediatamente le chiavi delle chiese ed il ritorno di tutti i sacerdoti allontanati dal Manhes.

(articolo pubblicato su Il Quotidiano della Calabria)

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