povertLa Cenerentola d’Italia è ancora la Calabria. La nostra regione si conferma la più povera dell’intera nazione con un Pil pro capite che nel 2013 si è fermato a soli 15.989 euro, meno della metà delle regioni più ricche della penisola: Valle d’Aosta (34.442 euro), Trentino Alto Adige (34.170 euro) e Lombardia (33.055). E’ questo quanto emerso dal rapporto Svimez 2014 presentato ieri a Roma. I dati dipingono un trend in calo per tutto il Mezzogiorno, che nel 2013 è sceso al 56,6% rispetto al valore del Centro-Nord. Un passo indietro di ben dieci anni, capace di riportare il Sud Italia ai livelli del 2003, con un Pil pro capite di 16.888 euro, mentre quello del Centro-Nord si è mantenuto a quasi il doppio: 29.837 euro pro capite. Un Sud, quindi, poverissimo, discriminato e senza lavoro, con alti tassi di povertà, emigrazione e disoccupazione e soprattutto con un progressivo invecchiamento della popolazione residente.

Dati che confermano la crisi amara in cui è caduto il Mezzogiorno, una delle zone d’Europa ormai a maggiore rischio desertificazione, dove i flussi di emigrazione sono ripartiti con la stessa intensità della metà del novecento, tanto che solo nel 2013 si sono contati ben 116mila abitanti che hanno fatto le valigie per spostarsi dal Meridione verso altre zone d'Italia e d'Europa. Anche il saldo tra natalità e decessi si è chiuso in largo passivo. Fenomeni determinati, anche e soprattutto, da un impoverimento continuo (il tasso delle famiglie meno abbienti è aumentato del 40% nell’ultimo anno) e dalla cronica mancanza di occasioni occupazionali (perso l’80% dei posti di lavoro nazionali tra il primo trimestre del 2013 e del 2014).

Il settore che più di tutti sembra aver accusato il colpo è quello industriale, che ha fatto registrare un calo del 53% degli investimenti dal 2007 al 2013, con un conseguente -20% degli operatori impegnati nel settore. Crollano anche i consumi delle famiglie (-13% in cinque anni) e la soglia dei soggetti occupati ha raggiunto i 5,8milioni, eguagliando il valore minimo registratosi dal 1977 ad oggi. Non va meglio per il settore turistico in preda ad una condizione di piena decadenza economica: fino all’agosto 2014 le imprese turistiche fallite o comunque sparite dal settore commerciale, hanno determinato un saldo negativo di 2.417 occupati.

Nell’ambito della presentazione del rapporto Svimez 2014, si è provato, in conclusione, anche a proporre soluzioni utili a determinare una giusta inversione di tendenza. Tra le idee di “policy” emerse, la fiscalità di compensazione, il rilancio degli investimenti, una politica industriale nazionale specifica per il Meridione. Strategie – afferma lo Svimez – che si pongono dentro una visione di sviluppo nazionale centrata sul riscatto del Mezzogiorno, basata su quattro direttive principali: rigenerazione urbana, rilancio delle aree interne, creazione di una rete logistica in un’ottica mediterranea, valorizzazione del patrimonio culturale.

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Lunedì, 16 Gennaio 2012 15:40

"La miseria di Cutro" (Ugo La Malfa, 1958)

mini la_malfa_e_moroMi piace riproporre un articolo di Ugo La Malfa (foto, insieme ad Aldo Moro), datato 20 marzo 1958 scritto per “La voce repubblicana” e titolato “La miseria di Cutro”, che custodisco gelosamente tra le mie cose ormai da anni. Si tratta di antichità, si tratta di povertà da terzo mondo trasformata decisamente in benessere, e non grazie alle lotte armate, ma alle rimesse e ai sacrifici degli emigrati, del tempo, in Germania e a Reggio Emilia, anche con la conseguenza dell’abusivismo edilizio, “abusivismo di necessità” cosiddetto e giustamente.

Mimmo Stirparo

“Ha scritto Alfredo Todisco su La Stampa di giorni fa, a illustrazione di una sua inchiesta in Calabria, e dopo aver elogiato la riforma agraria, la bonifica, l’intervento della Cassa del Mezzogiorno, le seguenti impressionanti parole: “Un miglioramento, senza dubbio, vi è stato. La visione di Cutro, tuttavia, è ancora terribile. A Napoli la miseria, anche la più tetra, è sempre di uomini che conservano la scintilla dell’anima. Qui la miseria ha uno sfondo che ha perduto molto dell’umano. Senza canti, senza tradizioni artigiane, senza costumi particolari. Cutro è un paese abitato da un popolo di bambini scalzi e di cani randagi. Gli adulti sono sui campi, oppure aspettano un lavoro lungo la strada principale, seduti a terra, gli sguardi stupefatti. I cani di Cutro hanno lunghe orecchie penzolanti, sono tutti diversi gli uni dagli altri, offrono una varietà infinita di musi contraffatti e spiritati. A Cutro, forse il comune più depresso d’Italia, la natalità raggiunge uno dei tassi più elevati, il cinquanta per mille. Gli interni (delle case) sono ancora più tetri delle vie, se possibile. Pavimenti di terra battuta, cosparsi di foglie e di verdura. Il fuoco spesso si accende in un angolo dell’unica stanza, il fumo incrosta il muro di nero, esce dal tetto sconnesso. Nessuna meraviglia che in queste condizioni il tracoma e la tubercolosi infieriscano tra la popolazione del comune. Spingendo ancora più nell’interno del marchesato di Crotone, si traversano paesi che oltre a non avere acqua, luce, fognature, mancano persino del cimitero.”

Ho citato queste parole per dimostrare come, a quasi dieci anni di distanza dalla riforma agraria, dall’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, da una politica di interventi statali, la situazione di molte zone d’Italia sia rimasta in uno stadio di miseria quasi inconcepibile. E non si tratta della sola Calabria o del solo Mezzogiorno. Si visitino molti Comuni montani dell’Umbria, delle Marche, della stessa Emilia, del Piemonte: il quadro non è differente. Vi è in corso una vasta e clamorosa polemica fra statalisti e antistatalisti. L’on. Malagodi, il senatore Sturzo, il ministro Pella, vantano i meriti della libertà economica e si proclamano fieri assertori dell’antistatalismo. Altri difendono lo statalismo o, almeno, si fanno propugnatori dell’intervento statale. Ma come è avvenuto che essendovi state, nel nostro Paese, fasi di libertà economica, a cui sono succedute cosiddette fasi di statalismo, essendo o non essendo esistiti l’IRI e l’ENI, essendovi stati al governo uomini della destra o della sinistra, democratici o totalitari, la sorte di Cutro sia rimasta la stessa? Che cosa ha fatto sì che la civiltà più elementare non abbia sfiorato Cutro, o altri Comuni che si trovano nella stessa tragica condizione di Cutro? Come è possibile che, nell’anno di grazia 1958, giornalisti come Todisco, facciano nel nostro Paese, che noi presumiamo essere di alta civiltà, constatazioni e rilievi che si possono tutt’alpiù riferire a miserrimi villaggi dell’Egitto, della Turchia o dell’India? Quale mai razza di collettività e di società è la nostra, che può mostrare, contemporaneamente, i grattacieli e le costose costruzioni edilizie di Milano e le miserie di Cutro? Come si può pretendere di far parte dell’Europa, della cosiddetta civiltà occidentale, e avere casi come quelli di Cutro, facendone oggetto di commossi e attoniti reportages giornalistici soltanto? Siamo alla vigilia di una battaglia elettorale. Possiamo forse sperare che la sorte di Cutro migliorerà nei prossimi cinque anni? L’on. Malagodi, il senatore Sturzo, il ministro Pella promettono di smantellare l’IRI o l’ENI, di fare tabula rasa dello statalismo, ma forse ci danno una soluzione qualunque del problema della miseria italiana? Lo statalismo imperversa e non si accorge di Cutro, ma se ne è accorta forse l’iniziativa privata in tutti questi anni? Lo Stato sperpera denaro in inutili cose, ma i grattacieli di Milano, ma i lussuosi cinematografi oggi in crisi, innegabili frutti dell’iniziativa privata, sono proprio utili in un Paese che mostra agli stranieri attenti e consapevoli, una desolazione e una miseria ancora tanto assurdamente diffuse? In verità, dopo i primi interventi del 1950, dopo gli entusiasmi e le polemiche intorno alla riforma agraria e alla Cassa del Mezzogiorno, la democrazia si è seduta. La fiamma si è spenta e il regime di oggi continua  l’andazzo di ieri, le tradizioni del fascismo o dello Stato liberale. Si continueranno a gettare centinaia di miliardi dell’iniziativa privata o dell’iniziativa pubblica in investimenti voluttuari o del tutto superflui o non commisurati alle necessità elementari del Paese. Ma all’orizzonte di Cutro non apparirà nulla di nuovo, come dieci anni, come cinquant’anni, come un secolo fa. E’ evidente che la nostra non è una civiltà degna di questo nome, se per civiltà s’intende una condizione di vita dignitosa ed omogenea. E’ evidente che senza un grande sforzo di disciplina, di austerità, di solidarietà, l’Italia non sarà mai un Paese occidentale e moderno. E’ evidente che solo lo Stato, affiancato dalle regioni, dai comuni, dall’iniziativa pubblica e privata, può portare a compimento un grandioso processo di redenzione di tutta la società nazionale. Ma vi è forse una qualsiasi indicazione politica che questo possa essere fatto nei prossimi anni? Vi è un impegno, una battaglia, un programma che dia qualche speranza? Dieci anni fa la democrazia aveva più sensibilità ai problemi della condizione storica e sociale del nostro Paese di quanta non ne abbia oggi. E’ questa la causa vera del generale malessere e di indubbia decadenza. Troveremo l’energia morale e le forze politiche necessarie ad un compito che sistematicamente una certa Italia ufficiale, sia di destra o di sinistra, statalista o antistatalista, democratica o totalitaria, trascura, occupandosi di ben più solidi interessi e di meno crude realtà? E quando governo e parlamento a Roma, ma alcuni liberi iniziativisti a Milano o a Torino, si accorgeranno che Cutro è in Italia e non nel centro dell’Africa”.

Ugo La Malfa

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mini manoscrittoLo storico inglese Christopher Duggan, nel suo saggio “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi", sostiene che il nucleo emotivo su cui si basa l’unità d’Italia sia debole ed inconsistente. Figlio di ambizioni e frustrazioni, di slanci e di sconfitte, vi è stata l’incapacità da parte dello Stato nazionale di risolvere la cosiddetta Questione Meridionale. Per dirla con Sciascia, si parla di questione meridionale grazie all’impegno degli scrittori meridionali, senza le cui denunce essa sarebbe rimasta una “leggenda nera”. Cantore in presa diretta della nascita dello Stato unitario e della Questione Meridionale, dei problemi ad esso connaturati e dei danni che il nuovo governo arrecò al Mezzogiorno ed in particolare alla Calabria, è stato il poeta Mastro Bruno Pelaggi (Serra San Bruno 15 settembre 1837 – 6 gennaio 1912) che visse quasi tutta la sua parabola umana a Serra San Bruno, patria anche dell’amico, più volte ministro, Bruno Chimirri. Il poeta serrese faceva uno dei mestieri più duri, lo scalpellino; aveva imparato la vita alla severa scuola della crudezza e aveva improntato la sua esistenza ai principi morali della giustizia e dell’uguaglianza, assumendo il concetto del bene e del giusto quale regola inflessibile di condotta, che osservò con estrema coerenza, senza timore di scontrarsi con l’ordine costituito e con la moralità del tempo. Esaminando le liriche di Mastro Bruno è possibile rinvenire, in alcuni componimenti, dei concetti e dei principi omogenei. Pur non potendo parlare di pensiero sistematico, in quando il poeta scalpellino non ebbe una cultura letteraria né tantomeno filosofica, è possibile tuttavia parlare di una concezione etico-politica che caratterizza la maggior parte delle sue poesie e che ne fa un acuto osservatore e denunciatore della nascente Questione Meridionale. Non si può parlare di una “poetica politica” come frutto di una coscienza di classe, essa è figlia piuttosto di un “istinto di classe” che nasce dalla consapevolezza che al mondo esistono due categorie di esseri, gli sfruttatori e gli sfruttati, e dalla percezione del poeta serrese di appartenere a quest’ultima. In Mastro Bruno la Questione Meridionale, come rilevato dallo studioso Biagio Pelaia che ha curato “Li Stuori” (nota raccolta dei versi di Pelaggi) fin dalla prima edizione, si manifesta non soltanto come testimonianza diretta, ma soprattutto come vicenda umana personalmente vissuta e sofferta che lo conduce, partendo dalla propria esperienza, a fare delle considerazioni e delle riflessioni più generali ed universali che saranno poi alla base della coscienza meridionalistica. Mentre vi è una serie di otto componimenti interamente dedicati al periodo monarchico-unitario, vi è un frammento costituito da otto quartine dal titolo “Quand’era giuvinottu” in cui il poeta serrese tenta di cogliere, dal suo punto di vista e a posteriori, le differenze tra il regime borbonico e quello unitario, facendo riferimento anche all’attività cospirativa nei confronti del primo.

Quand’era giuvinottu,                                                                                          Quand’ero giovanotto

jio mi ricuordu appena                                                                                            io mi ricordo appena

ca si dicia ca vena                                                                                                   che si diceva venisse

Cientumasi;                                                                                                                           Cientumasi;

di sira, ‘ntra li casi,                                                                                              di sera, dentro  le case,

cu’ certi carvunari,                                                                                                      con certi carbonai,

pimmu ‘ndi dinnu mali                                                                                                  per parlarci male

dilli Borboni                                                                                                                         dei Borboni.

Ch’era ‘nu lazzaroni                                                                                            Che fosse un lazzarone

‘n sigrietu si dicia;                                                                                               segretamente si diceva;

c’ognunu non vulìa                                                                                        perché ognuno non voleva

mu parra forti,                                                                                                          parlare ad alta voce,

picchì a sicura morti                                                                                               perché a sicura morte

jia ‘ncuntru, o carciratu                                                                               andava incontro, o carcerato

e pue cadia malatu                                                                                                   e poi cadeva malato

e si futtia.                                                                                                                            e si scornava.

Tandu non capiscia;                                                                                         Allora non potevo capire;

però (mancu li cani!),                                                                                         però (cosa malagevole!)

cu chist’atri suvrani                                                                                              con questi altri sovrani

si dijuna.                                                                                                                                  si digiuna.

‘N Calabria ormai la luna                                                                                  In Calabria ormai la luna

Va sempi alla mancanza,                                                                                        va sempre a mancare,

e non c’è cchiù spiranza                                                                                        e non c’è più speranza

ca ‘ndargimu.                                                                                                            che ci risolleviamo.

 C’arriedi sempi jimu,                                                                     Poiché andiamo sempre più indietro,

 li mastri e li fatighj;                                                                                sia le maestranze e sia il lavoro;

chissu lu capiscivi                                                                                                        questo l’ho capito

non di mò;                                                                                                                     da molto tempo;

Ca lu Guviernu vò                                                                                                        perché il governo

sulu pimmu ‘ndi spògghja,                                                                                     vuole solo spogliarci,

mu ‘ndi leva la vòggjia                                                                                  facendoci passare la voglia

mu stacimu…                                                                                                               di rimanere qui…

In questo componimento, nei versi iniziali, Mastro Bruno, ricordando uno dei tanti episodi della sua gioventù, riporta un piccolo squarcio dell’attività cospirativa che verosimilmente dovrebbe datarsi intorno al 1848, quando la propaganda antiborbonica era molto intensa. Cientumasi era il cospiratore, quello che oggi sarebbe identificato col termine “terrorista”, uno dei briganti ribelli che all’epoca erano mal sopportati dall’assolutismo borbonico. Dai primi versi traspare la segretezza e la paura dell’attività cospiratrice pre-risorgimentale di cui anche i piccoli centri come Serra San Bruno erano interessati. Di certo il regime borbonico non sopportava critiche o denunce sociali e gli autori erano puniti con il carcere o addirittura con la morte. Il poeta dopo aver descritto quest’attività pone il confronto col regime unitario ed il dato di fatto emergente è sconvolgente. Se durante la monarchia borbonica la libertà, soprattutto quella di espressione e dissenso, era pressoché negata, se il regime assolutistico faceva di tutto per mantenere la Calabria nell’arretratezza sociale e nella conseguente povertà, col nuovo regime sabaudo le classi che potremmo definire proletarie sfiorano la fame e vengono sommerse da nuove tasse per rimpinguare le casse dello Stato piemontese che si era fortemente indebitato e la cui economia era assai inferiore rispetto a quella dello stesso Stato borbonico. E’ noto agli storici come le maestranze artigianali, che spesso erano dei veri e propri artisti, dopo l’unificazione entrarono in un periodo di crisi inarrestabile che ne comportò un lento e inesorabile processo di decadenza fino alla loro scomparsa.

Basta! – Simu ‘Taliani! –                                                                                  Basta! – Siamo Italiani -

Gridamma lu Sissanta.                                                                               Abbiamo gridato il Sessanta.

(Ad Umberto I, vv. 69-70)

Per il cosiddetto meridionalismo classico, la Questione Meridionale consiste nella mancata integrazione economica del Sud nel processo di sviluppo capitalistico a cui era avviato il Nord, mentre per le correnti d’ispirazione marxista questa integrazione in realtà è avvenuta, ma secondo le modalità con cui il capitalismo, nella sua fase avanzata, rende funzionale al suo sviluppo l’economia dei paesi arretrati, annettendoli ed utilizzandoli come serbatoio di manodopera a basso costo e come colonia a cui vendere i prodotti. Le parole di Mastro Bruno sono emblematiche nell’esprimere la passione con cui anche i ceti proletari e più poveri hanno guardato all’unificazione; il passaggio di Garibaldi nella penisola fu infatti motivo di acceso patriottismo anche tra i ceti meno abbienti, che guardavano all’unità come alla promessa di un futuro migliore. L’impresa dei Mille sembrava voler chiamare tutti gli italiani verso una meta comune, superando ogni differenza etnico-localistica. Ma questo non avvenne e dopo l’Unità le divergenze sociali ed economiche riaffiorarono. Con la caduta delle barriere doganali un maggiore flusso di viaggiatori ed uomini di cultura arrivò nel Mezzogiorno e, non conoscendo la realtà sociale e le ragioni dell’arretratezza, si espressero con motivi di disprezzo nei confronti della gente del Sud. A ciò è da aggiungere come improvvisamente il nuovo Stato si trovò a fare fronte ai debiti contratti dallo Stato sabaudo, per risolvere i quali si procedette ad una politica di tassazione più marcata proprio nel meridione. Sul popolo calabrese, dopo l’Unità d’Italia, si abbatté una serie infinita di tasse: la comunale e la provinciale, la tassa di famiglia e quella sul macinato, oltre all'inimmaginabile tassa di successione e all'impensabile leva obbligatoria. La gente del meridione, dopo aver vissuto l’illusione di essere riscattata dall’unità nazionale, dovette rassegnarsi di nuovo e il Mezzogiorno subì un abbandono non soltanto economico ma soprattutto sociale e morale. Cosi Mastro Bruno, esprimendo disperazione e solitudine e identificando l’uomo meridionale sfruttato e deriso dai potenti nonché deluso dagli uomini, scrive al Re:

Picchì hai mu li nascundi                                                                                   Perché devi nascondere

li gridi calabrisi?                                                                                                        i lamenti calabresi?

Non pagamu li spisi                                                                                             Non paghiamo le tasse

‘guali a tutti?                                                                                                                      uguali a tutti?

Ma tu ti ‘ndi strafutti;                                                                                             Ma tu te ne strafotti;

li deputati cchiùi:                                                                                               i deputati ancora di più:

duvi ‘ncappama nui,                                                                                          devo siamo capitati noi,

povar’aggenti!                                                                                                                    Povera gente!

(Ad Umberrto I, vv. 97 – 104)

Ma non avendo nessuna risposta da Umberto I il poeta decide di rivolgere il suo lamento al Padreterno, nella speranza che almeno il cielo si accorga della sofferenza che attanaglia il meridione e la sua provvidenza sconvolga l’ordine terreno basato sulla diseguaglianza:

Non vidi, o Patritiernu,                                                                                      Provvedi, o Padreterno,

lu mundu mu sdarrupi,                                                                                        a distruggere il mondo,

ch’è abitatu di lupi                                                                                              perché è abitato da lupi

e piscicani?                                                                                                                           e pescecani?

(Lettera al Padreterno, vv 1- 4)

A nui ‘ndi scuorticaru                                                                                      A noi ci hanno scorticato

li previti, l’avaru                                                                                                                i preti, l’avaro

e lu Guviernu.                                                                                                                     e il governo.

(Lettera al Padreterno, vv 110 - 112)

In effetti, tra il 1865 ed il 1890 lo Stato unitario spese ingenti somme per l’acquisto di beni ecclesiastici e demaniali, che di fatto impedirono investimenti che avrebbero potuto ottimizzare l’agricoltura meridionale. Il degrado in cui fu lasciato il Mezzogiorno fece sì che l’insicurezza economica dei comuni del sud causasse il rifiuto dei loro amministratori nei confronti di prestiti a condizioni vantaggiose per la costruzione di opere pubbliche, con la conseguenza che  di queste condizioni vantaggiose approfittarono settentrionali intraprendenti che vedevano in questi prestiti una sorta di investimenti redditizi a lunga scadenza. Alla fine Mastro Bruno Pelaggi, deluso ed amareggiato, preso dallo sconforto e sentendo tutte le sue forze svanire, decide di raccontare il suo tribolare alla luna, quale unica e impassibile spettatrice delle sue sofferenze, affidando al suo mutismo il compito di raccoglierle e portarle a riposare con se. Essa è l'interlocutore a cui il poeta serrese rivolge i suoi lamenti, con la consapevolezza di non ottenere mai risposta, poiché essa rappresenta l'infinito, l'eterno e l'immortale, è insomma quello che un uomo non potrà mai essere.

Quantu’agghjuttivi amaru                                                                         Quante amarezze ho ingoiato

‘ntra ‘st’esistenza mia!                                                                                       in questa mia esistenza!

Luna, si non niscia                                                                                              Luna, se non fossi nato

quant’era mieggju!                                                                                                       quant’era meglio!

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