Lunedì, 25 Aprile 2022 08:30

25 aprile, le storie dei calabresi che hanno combattuto per la libertà

Scritto da Bruno Greco
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Torino libera, Federico Tallarico alla guida del corteo (archivio Icsaic) Torino libera, Federico Tallarico alla guida del corteo (archivio Icsaic)

«La futura democrazia ha avuto anche una paternità meridionale». Oggi che la parola Resistenza, per vari motivi, è abusata e passa di bocca in bocca come il più comune dei saluti, ritornano utili, come sempre, le parole di Pantalone Sergi che, interrogando la Storia, ci ricorda quanto sia stato importante il contributo della gente del Sud durante quella che fu la nostra Resistenza. Il 25 aprile, come ogni anno, ricordiamo i calabresi che in prima linea scelsero di combattere per la nostra libertà. Anche se è impossibile citarli tutti, ricorderemo i profili di alcuni dei protagonisti nei quali ci siamo imbattuti in questi anni grazie ad alcuni documenti dell’Icsaic (Istituto calabrese per la storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea) e alle storie raccontateci direttamente dai familiari.

Scampato alle Fosse Ardeatine  

Francesco Restuccia (maestro e giornalista nato a Joppolo ma figlio d’adozione di Tropea) è scomparso due anni fa all’età di 96 anni. Come raccontatoci dalla figlia Giovanna, gli ultimi 4 anni trascorsi proprio in casa di lei a Catania, lontano dalla sua Tropea, le hanno fatto comprendere quanto amasse la sua Calabria e la sua città. Riposti nel cassetto ci sono gli aneddoti legati alla sua militanza come partigiano che avrebbe voluto dare alla stampa prima di lasciare questo mondo. «Tra i racconti di quel periodo – ha raccontato la figlia Giovanna – uno che mi ha colpito enormemente riguarda l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Proprio il 24 marzo del 1944 si trovava a Roma nei pressi del luogo dove avvenne l’eccidio. Stava aspettando il cognato, il marito di sua sorella che tra l’altro faceva parte della polizia. Fu lui a dirgli di allontanarsi immediatamente da quel posto perché c’era tanta gente e tirava una brutta aria. Se non fosse stato per quell’avvertimento magari le cose sarebbero andate diversamente per mio padre». Da sempre militante nel partito socialista di lui la figlia ricorda ancora quanto furono importanti nella sua vita gli ideali politici: «Era uno strenuo osservatore delle regole e delle leggi. La sua dote più grande era l’onestà. Nel dibattitto politico con chi non la pensava come lui ha sempre fatto prevalere il confronto e mai lo scontro. Ricordo che tra avversari ci si rispettava anche durante i comizi. Quel senso del rispetto oggi non esiste più».
Il 25 aprile del 2016 a Restuccia, assieme Carmine Fusca di Limbadi e Pasquale Staglianò di Bagnara, fu conferita la medaglia della Liberazione per il tramite delle prefetture. Riconoscimento istituito della Difesa su proposta dell’Anpi e della Confederazione delle associazioni partigiane.

I partigiani Francesco Restuccia, Carmine Fusca e Pasquale Staglianò a cui fu conferita in vita nel 2016 la medaglia della Liberazione

Quel caffè offerto da Gianni Agnelli  

«Sì, Gianni Agnelli. Lo coprimmo per diverso tempo. Poi un giorno ci trovammo col comandante Maffiodo a casa sua, dinanzi a lui. Era un galantuomo, una persona squisita. Ci fece il caffè con le sue mani! Mi sembrò una cosa strana vedere un uomo come lui alle prese con una macchinetta del caffè, nonostante fosse circondato da diversi uomini del suo personale di servizio». Carmine Fusca (“Zio Carmine”, come tutti amavano chiamarlo e del quale qui ne abbiamo raccontato la storia) è venuto a mancare il 26 dicembre del 2017. Obbligato alla “camicia nera”, dopo essersi arruolato nel 228mo reggimento fanteria, dopo l’“8 settembre” approda nella 17ma “Brigata Garibaldi” per poi passare alla 113ma, partecipando a numerosi scontri coi nemici. Ricordando la sua figura nell’esprimere il proprio cordoglio alla famiglia lo scrittore e storico Pantaleone Sergi ha detto: «Contro i tedeschi – raccontava – abbiamo combattuto diverse battaglie e teso loro imboscate. Ma il nemico più pericoloso era in casa nostra: erano i fascisti capaci di fare cose che neanche i soldati tedeschi erano in grado».  

Con la dinamite nelle gerle per confondere le Brigate Nere  

A ricostruire su Il Vizzarro la storia del serrese Pino Scrivo, il partigiano Aramis, sono stati Salvatore Costa e Francesco Barreca: «Alle cinque del pomeriggio del 20 settembre 1944 il sole, ormai prossimo a nascondersi tra i versanti dirupati della valle del Vajont, proietta lunghe ombre sulla mulattiera che costeggia il profondo baratro scavato dal torrente per tuffarsi nel Piave. Due figure – donne, a dire dagli abiti – emergono dal buio della galleria con le gerle colme di fieno sulle spalle, incontrate e seguite con lo sguardo dal presidio di Brigate Nere pigramente accoccolate sul pendio a guardia del passaggio. Il ponte del Colomber, ricostruito dopo che gli austriaci lo avevano fatto saltare in aria nel ’18 per apparecchiarsi meglio la ritirata, non è lontano: se ne distinguono le colonne di cemento armato e il parapetto in ferro, fusi in una struttura arcuata, incastrata in mezzo a due giganteschi grumi di calcare e sospesa sull’orrido del Vajont a più di 130 metri d’altezza. Uscite alla smorta luce dell’ultimo sole, le due figure rallentano il passo, si fermano, lanciano un’occhiata al drappello di Brigate Nere, si sistemano le gerle. Poi riprendono a camminare a testa bassa. Il carico se lo portano addosso da un’ora buona, ma non sembrano accusare fatica. Procedono con calma, aspettando che il sole, finalmente, le liberi dall’incombenza della luce. Perché le due figure non sono donne, ma aitanti giovanotti; e il carico che trasportano non è fieno, ma dinamite. A Erto, da dove sono partiti, molti li conoscono coi nomi di Boris e Aramis; gli amici e i compagni più fidati sanno, invece, che i loro veri nomi sono Bruno Pagotto e Pino Scrivo (leggi qui tutta la storia).  

Alla guida del corteo nel giorno in cui Torino viene liberata

Il catanzarese Federico Tallarico, il partigiano “Frico”, è stato uno dei comandanti calabresi delle brigate autonome più influenti della Resistenza. Brigata, quella di Tallarico, facente parte della Divisione “Sergio De Vitis” guidata dai fratelli Giulio e Franco Nicoletta, anch’essi calabresi di Crotone. Alla Resistenza parteciparono anche il fratello Antonio e la sorella Nina. Tutti e 3 furono arrestati il 12 gennaio del 1945. La mattina seguente, come scrive il professor Giuseppe Ferraro, Tallarico venne condotto di fronte a un tenente tedesco per essere sottoposto a interrogatorio. Alle richieste da parte tedesca di rivelare dove si trovassero gli altri partigiani rispose negativamente ma a voce alta, per permettere al fratello, fuori dalla stanza, di sentire e confermare dopo di lui la stessa versione. Il tribunale sentenziò per la fucilazione ma nonostante la condanna a morte la sentenza non venne eseguita. Trattandosi di uno dei capi partigiani più importanti in Piemonte, era utile in un eventuale scambio di prigionieri. Uscito di prigione guido il corteo della Torino liberata.  

I fratelli Nicoletta 

Il crotonese Giulio Nicoletta, assieme a Federico Tallarico, fu uno dei personaggi più influenti della Resistenza. Trasferitosi a Vercelli ancora studente, si arruolò nel 1° reggimento fanteria carrista. Giunto nella provincia di Torino, più precisamente a Bruino, diede vita a un gruppo partigiano che entrò a far parte della Resistenza. Nel gennaio del 44, ferito durante un combattimento contro i nazifascisti vicino Trana (To), entrò a far parte, insieme ai suoi uomini, della 43° Divisione autonoma “Sergio de Vitis” dove assunse il grado di comandante. Nell’aprile dello stesso anno avviò trattative con i tedeschi per il rilascio di 51 ostaggi cumianesi (per i quali avrebbe a sua volta rilasciato i soldati tedeschi suoi prigionieri), ma essi violarono gli accordi e uccisero tutti gli ostaggi. Nel 1945 fu tra i primi a recarsi a Torino insieme ai suoi partigiani per impedire l’entrata in città delle truppe naziste del generale Hans Schlemmer. Sempre al suo fianco, a sostenere e combattere per gli ideali della Liberazione, anche il fratello Franco Nicoletta

Infiltrato tra i fascisti 

A riportare alla luce la singolare storia del partigiano Fanfulla (Francesco Vallelonga di Nardodipace) è stato Antonio Cavallaro (responsabile comunicazione della casa editrice Rubbettino). Anche Fanfulla, come tanti altri, era arrivato a far parte dell’esercito italiano di seguito all’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno del 1940. Le sue parole sono eloquenti rispetto alla preparazione dell’esercito italiano: «Nella caserma di Baggio a Milano – scrive Cavallaro – un ufficiale ci fece vedere una bussola e ci mostrò come sparare. Fu tutto lì l’addestramento che ricevemmo». Partecipò alla disastrosa campagna di Russia e dopo l’armistizio divenne un “repubblichino”. Proprio in seno alla neonata Repubblica sociale italiana si fa fondamentale il ruolo di Francesco Vallelonga. Nella caserma di Acqui Terme, in qualità di aiuto cuoco, comincia la sua esperienza da partigiano “infiltrato”, in un luogo dove può ascoltare informazioni importanti sulle retate da riferire ai propri compagni e in più trovare armi da fornire di nascosto a favore della causa.  

Francesco Vallelonga in compagnia di un suo commilitone durante la guerra

«Una distorsione mi evitò la Campagna di Russia»  

Domenico Mazzitelli di Zaccanopoli, il partigiano “Rosina”, non ha mai dimenticato l’evento che gli fece evitare la Campagna di Russia e che ha sempre definito come la sua salvezza: «In una battuta di caccia subii una grave distorsione che m’impedì di rientrare in caserma. Al rientro a Novara i miei commilitoni erano tutti partiti per la Campagna di Russia. Ne rientrarono in pochissimi». Alla fine del 1943 Mazzitelli entra a far parte delle Brigate nere al servizio dello “Stato fantoccio” della Repubblica Sociale Italiana. «Grazie al consiglio di un colonnello di nome Arena – amava ricordare Mazzitelli – entrammo a far parte delle Brigate nere per non essere deportati oltre il confine italiano. Era stato pubblicato un avviso che convocava tutti i militari presso la propria caserma in un giorno prestabilito. Lo scopo era quello di farci lavorare per i tedeschi o ancora peggio l’internamento in qualche campo. Il generale Arena aveva firmato un permesso cumulativo per me più altre quattro persone. I tedeschi non lo accettarono chiedendo autorizzazioni individuali. Per fortuna il colonnello era ancora in caserma e acconsentì alle richieste. Scappai assieme ad altri due compagni con i quali mi arruolai tra le fila dei partigiani».  

Rossano “covo” antifascista  

Della temeraria Rossano riportiamo un contributo del collega e amico Francesco (Ciccio) Ratti per La Provincia di Cosenza.  

Contrariamente al sentire comune, che vuole la Resistenza come fenomeno prettamente legato al settentrione d’Italia, furono molti i meridionali che parteciparono nella lotta serrata agli occupanti nazisti e ai loro alleati fascisti. La città di Rossano ne conta diversi e i casi emblematici non mancano affatto. C’è la storia di Giovanni Aceto, figlio di un operaio del Ciglio della Torre che durante la Seconda Guerra Mondiale si arruolò in Marina per poi unirsi alle bande partigiane dopo l’8 settembre. Catturato dai tedeschi fu impiccato insieme ad altri compagni presso la città di Padova. Il cartello al collo recitava “Giovanni Aceto di Rossano Calabro. Sono un assassino”. Più triste la storia del rossanese Antonio Ceravolo, martire di guerra, ucciso a soli 18 anni d’età il 18 agosto 1944 a Sestino in provincia di Arezzo da tre colpi di moschetto sparatigli dal sergente tedesco Heinz Held, fanatico hitleriano, come ritorsione per la fuga di 17 prigionieri italiani dal campo di concentramento di S. Sepolcro. Held ne avrebbe dovuto uccidere tre scelti a caso fra i prigionieri per ogni fuggitivo, ma si limitò a sopprimere il solo Ceravolo.
Più celebre è invece la storia di Marco De Simone, già sindaco di Rossano e Senatore della Repubblica, nato a Rossano il 20 aprile 1914 da una famiglia di contadini, piccoli proprietari terrieri che abitava in campagna. Nel 1935 lasciò Rossano per Firenze dove si iscrisse all’Università. Dopo il 25 luglio 1943 Marco De Simone ebbe il compito di rappresentare il Pci nel Comitato di Liberazione Nazionale toscano. Intorno alla metà del 1944 sfuggì miracolosamente alla cattura e, braccato, si nascose in provincia di Ravenna diventando uno dei principali animatori della Resistenza.  

Sarebbero tantissime altre le storie da scovare, studiare e raccontare della Calabria protagonista della Resistenza. Questi nomi che qui abbiamo citato rappresentano le centinaia di calabresi che hanno cercato di rendere migliore il nostro paese.  

Buona festa della Liberazione!

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