Lunedì, 08 Gennaio 2018 08:29

Donne che portano pesi. Una “visione” serrese di Theodore Brenson

Scritto da Tonino Ceravolo
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Serra San Bruno, nel bosco di Santa Maria, donne che portano pesi (collezione privata) Serra San Bruno, nel bosco di Santa Maria, donne che portano pesi (collezione privata)

Visioni di Calabria. Cinquantadue disegni di Teodoro Brenson è il titolo di una rara raccolta pubblicata a Firenze nel 1929, presso Vallecchi, nella “Collezione meridionale” diretta da Umberto Zanotti-Bianco (Serie III. Il Mezzogiorno artistico).

Brenson, come informa Luigi Parpagliolo nella sua introduzione al volume, era nato a Riga, in Lettonia, nel 1893 e in questa città aveva frequentato la Scuola d’arte, studiando successivamente nell’Accademia di Belle Arti di Leningrado, architettura a Mosca e di nuovo a Riga. Nel 1924 si era trasferito a Roma e qui era entrato in contatto anche con l’ambiente degli artisti calabresi, un’esperienza, secondo quanto ha osservato Raffaele Gaetano (“Rivista calabrese di storia del ‘900”, n. 1/2011), probabilmente non estranea al viaggio in Calabria che avrebbe intrapreso nell’estate di quattro anni dopo e dalla quale avrebbe ricavato più di cento disegni, di cui una parte pubblicati nello splendido volume richiamato in apertura. Si tratta di prove figurative per le quali Brenson aveva scelto di utilizzare, in base a quanto egli stesso dice in una lettera inviata a Parpagliolo, la sanguigna, la seppia, il lapis nero, volendo, mediante questa varietà di tecniche espressive, misurarsi al meglio con le caratteristiche di luce e di forme del paesaggio calabrese.

Tra le tante tappe del suo tour, che comprese la regione in tutta la sua estensione, a un certo punto l’artista approdò anche a Serra di cui rappresentò Santa Maria del Bosco, scegliendo un punto di vista in apparenza tradizionale (inevitabile la presenza centrale del laghetto di penitenza di San Bruno, della foresta, della chiesa in alto), ma che si servì di una sorta di secondo focus iconografico nella raffigurazione di cinque donne sulla sinistra, occupate a trasportare ingombranti fascine di legna sulla testa, dinanzi alle quali stava un’altra figura prostrata, probabilmente in un atteggiamento di preghiera. 

Come avrebbe fatto pure per Scilla, dove, ai piedi del Castello, poneva due presenze femminili con una grande brocca e una cesta sul capo, Brenson rappresentava donne che portano pesi, un’immagine della donna calabrese che, si può dire, compendiava in vari modi la sua non facile storia e di cui, in maniera certamente sorprendente per lo specifico contesto, è possibile rintracciare un’altra “visione” in un testo agiografico in versi di fine Settecento composto a Serra e dedicato a San Bruno: “Ogni nativa donna della Serra / Porta legni sul capo, e pietre, e terra. / E stanca, e lassa alfin si riposa / Pell’amara fatica, e lagrimosa” (Bonaventura Bova, Breve compendio della vita di San Brunone cartusiano).

Indugiamo per un momento su quelle pietre che evoca Bova nei suoi versi. Non per nulla Corrado Alvaro avrebbe notato, più di un ventennio dopo la pubblicazione dei disegni di Brenson, che le donne calabresi “portano sulla testa grossi sassi da costruzione, in lunghe file, una a una. Il macigno di cui sono costruiti molti paesi dell’Italia meridionale è stato portato sulla testa dalle donne”. E questa donna, osserva ancora Alvaro, “pare una schiava da liberare. Non è neppure la schiava dell’uomo: è, con lui, la schiava della necessità”. Una schiavitù per la quale l’addestramento doveva avere inizio sin da piccole, bambine costrette a difficili esercizi di equilibrio, con il loro carico in testa, pur di apprendere un compito che sarebbe stato necessario conoscere bene in vista dell’età adulta: “E le bambine di questo mondo sommesso di schiave della necessità, che soltanto perché esseri umani creati a stare eretti hanno il vantaggio di poter passare col loro carico dove non passerebbe una bestia da soma, e soltanto perché esseri ragionevoli possono contentarsi di lavorare a questo modo per il prezzo di un chilo di pane, le bambine cominciano a portare piccoli pesi, l’orcio d’acqua di dieci o quindici litri, il fastelletto di legna”. Da grandi quei piccoli pesi si sarebbero trasformati in gravosi fardelli: “Vi sono donne che hanno una fatica ben più dura: le donne del popolo in genere, del popolo meridionale in ispecie: Sono le donne che portano pesi. Si domanderà quale possa essere il riserbo, la grazia, la dignità e la maestà della donna sotto un carico di cinquanta, e cento chili sulla testa, un sacco di farina, una balla di carbone, un fascio di legna, e col viso grondante di sudore che le mani occupate a equilibrare il carico non possono asciugare” (Il nostro tempo e la speranza. Saggi di vita contemporanea, Bompiani, 1952, pp. 12-15).

Ci sarebbe tornato di nuovo, Corrado Alvaro, su questa vicenda di fatica e sudore, di necessità e schiavitù, delle donne che portano pesi, soffermandosi, in una delle sue Quattro variazioni su donne, sulle donne di Chiaravalle: “Da piccina, chi nasce qui donna del popolo, è abituata ad andare a piedi nudi. Da piccina, e quasi per gioco, le si impone un peso da portare sulla testa, e senza l’aiuto delle mani; il canestrino piccolo, il paniere, l’orcetto per l’acqua da tre a cinque chili. è l’iniziazione a quella che sarà la sua vita; portare al torrente la cesta della biancheria da lavare […], al mulino il sacco dei cinquanta chili di grano da macinare, dalla fonte la giara di cinquanta litri d’acqua, dal bosco il fascio della legna, dal prato l’enorme carico di fieno sotto cui non si vede il viso trafelato, ma le braccia che reggono, il busto che si torce” (Un treno nel Sud, a cura di Vito Teti, Rubbettino Editore, 2016, p. 95).

C’è, come si vede, tutta una pedagogia del portare pesi (e, ovviamente, non occorrerebbe nemmeno precisare che qui il termine pedagogia è destituito di qualsiasi significato di valore), persino un’ortopedia, un allenamento ad apprendere una tecnica, quasi da giocolieri, essenziale per la vita da grandi, alla quale ci si prepara giorno dopo giorno, un poco alla volta, aumentando magari gradualmente i dosaggi ponderali così da abituarsi alla fatica senza sbalzi. E questo addestramento lo si maschera da gioco, da una cosa da bambine le quali, tuttavia, nell’apparenza di giocare imparano, si fanno lentamente adulte, fanciulle che si predispongono a diventare donne passando dai piccoli ai grandi pesi, da una fatica quasi simulata a una fatica vera, da “schiave”, tramortite sotto il carico della necessità. Perciò si sbaglierebbe a vedere nella “visione” serrese di Brenson un’immagine quasi oleografica, una Calabria banalizzata, una tranche de vie che può sollecitare, con l’eleganza formale dei suoi tratti, le tenerezze della memoria. La storia che questa “visione” racconta, forse persino al di là delle proprie intenzioni, lo si sarà capito, è un’altra e le pagine di Alvaro ne racchiudono il “segreto”.

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