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Domenica, 15 Maggio 2022 07:44

FIMMINA DI RUGA | La mia nonna, la mia terra

Scritto da Giuseppina Vellone*
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Foto di Raffaele Montepaone (dalla pagina Facebook raffaele montepaone fotografia) Foto di Raffaele Montepaone (dalla pagina Facebook raffaele montepaone fotografia)

Gli odori della nonna. Quelli della sua cucina. Il centro del mio mondo era la sua cucina. Una sedia più piccola delle altre, il suo posto. Accanto al fuoco. Lì rammendava, pregava, cucinava, puliva le verdure. Lì riceveva.

La nonna non era una donna di potere, anzi. Eppure tutto si svolgeva a casa sua. Cognate, nipoti, amici dei figli: tutti lì. Noi lì, per anni, alle tre del pomeriggio, con qualsiasi tempo, con qualsiasi mezzo, arrivavamo.
Mia madre era come “in prestito” nella propria casa, non sentiva di appartenervi e così è stato per noi.
Era la casa della nonna Brunina la mia vera casa. Al punto da augurarmi di stare male per rimanere lì o, addirittura, che succedesse qualcosa a mia madre perché io potessi abitare dalla nonna.

D’inverno, quando dormivo da lei, mi preparava la straca: un pezzo di tegola scaldata con le braci e avvolta in panni di lana, quella che in Veneto chiamano la mònega. Mi teneva strette le gambe fra le sue nel letto fino a quando le lenzuola non venivano contagiate dal calore dei corpi e del mattone.

Poi, la mattina, il rito del lavaggio: un bacile di smalto bianco su una sedia, le mani rudi che sapevano di sapone di Marsiglia: un profumo che mi arrivava negli occhi, ma non piangevo. Mi gustavo le gocce che mi cadevano dai capelli sul viso, come la pioggia sui vetri o la rugiada sulle foglie. Uscivo con i capelli bagnati, ma con la riga perfetta.

Poi la colazione, con il pane duro: piccole caverne che la marea del caffellatte riempiva per ritirarsi quando il cucchiaio sollevava i bocconi. La cartella pronta, la merenda con il pane tagliato come lo volevo, i saluti ai vicini, la partenza verso la scuola, come un’andata trionfale. La certezza del rientro a pranzo di nuovo lì, a casa, a casa della nonna, a casa mia.

La nonna era lì sempre, lì con il suo macinino. Il caffè macinato fresco ogni mattina riempiva con il suo aroma la casa. Era il segnale dell’inizio del giorno.
La nonna mi ha donato il senso del tempo, delle stagioni.

Mia madre annaspava fra una ricorrenza e l’altra, tra il dovere di “santificare le feste” e il dovere di celebrare gli onomastici: veniva così sommersa e non solo non godeva, ma rendeva le feste angoscianti.
La nonna no: il tempo non era suo nemico.

La nonna non era una maniaca della casa e della pulizia, anzi. Il suo obiettivo principale erano il pranzo e la cena; quindi la spesa o l’andata all’orto per gli ortaggi freschi avevano la precedenza.
Niente veniva fatto in fretta. La nonna godeva della preparazione. Si andava all’orto con calma; ogni stagione aveva le sue verdure e quello che si mangiava era ciò che la terra produceva. Le patate non mancavano mai. Patate fritte, patate e peperoni, patate bollite nella pignatta nel camino.

Un fuoco sempre acceso; un fuoco perenne, sacrale, il camino come un altare degli dei. Patate e peperoni, pasta e patate, patate bollite, patate sotto la cenere, patate che stagnavano, che ti saziavano, che ti rasserenavano. Poi broccoli, cime di rapa, zucchine, minestroni. Con la nonna ho imparato a pulire le verdure. Lei mi ha insegnato che non si butta via niente. La carne avanzata dal bollito si riciclava con le cipolle al piccantino; gli avanzi di maiale finivano nelle polpette, il pane duro pure. Le polpette della nonna erano il richiamo di tutti i nipoti. La domenica la nonna non andava alla messa “delle undici” ma a quella “della confraternita”, perché c’era il rito delle polpette: lei doveva essere lì, accanto al camino, a distribuirle.

Dalla nonna ho imparato a capire quando cambia il tempo, quando arrivano i temporali, quando si annuncia la primavera. Già a febbraio mi diceva di annusare l’aria, di cogliere le prime gemme; mi faceva arrivare a scoprire la prima violetta, il primo segno della rinascita.

Con lei andavo “ad acqua”: le brocche di creta pesante, qual- che volta, sbattevano sulle gambe e io sentivo il fresco dell’acqua che trasudava dalle pareti panciute. Quando fioriscono i tigli e il loro profumo occupa l’aria, immediatamente risento il fresco dell’acqua sulle gambe. L’andata alla fontana “della Scorciatina” si materializza: il viale dei tigli secolari ai lati della strada, la gente che va e viene come in processione. L’acqua fresca, gorgogliante, forte, democratica.

Nonna Brunina mi ha insegnato a fare la pasta ripiena. Le polpettine piccole della nonna non dovevano avere dimensioni perfette come quelle di mia madre, ero libera di sbagliare misura. E le mie venivano fritte con le sue, avevano la stessa dignità. La nonna non mi diceva cosa fare o come fare: mi faceva fare. Mi guardava con tenerezza, mi consentiva di sbagliare. Crescevo con il suo esempio, ma con il mio tempo.

Dalla nonna si facevano le provviste: la salsa di pomodoro, tutto ciò che riguardava il maiale, i funghi, le verdure. Lavori collettivi: ognuno al proprio posto, secondo ruoli definiti per età ed esperienza. Mentre si lavorava, si parlava, si raccontava, si viveva. Nonna aiutava, ma non sempre: a lei spettava il ruolo di vivandiera. Il suo regno erano le pause, quando, con il gusto di essere a buon punto, si mangiava. La nonna non pativa per la casa sporca, sembrava non patire le occupazioni, eppure, quando con il ritorno di zio Domenico, le tradizioni dello stare insieme furono proibite, forse per lei ci fu un po’ di riposo.

Penso che, oltre alla gioia di averci da lei, la presenza quotidiana, senza soluzione di continuità, con l’aggiunta dei lavori da fare per la macelleria di mio padre, era il prezzo che lei pagava per mantenere la famiglia.

Negli anni ’67/’68 il nonno si era ammalato, lo zio Domenico era stato costretto ad andare via, gli altri figli ancora studiavano. Grazie a mio papà, alla sua generosità, ai lavori con cui la nonna lo ricambiava, ma anche grazie alla duttilità dei miei zii, dopo tanti sacrifici, tutti e tre si laurearono. Ricordo quando, non avendo i soldi per comprare i libri, io e la nonna, sedute vicine vicine, ricopiavamo a mano sui quaderni dei capitoli interi: due amanuensi chine sul tavolo di fòrmica rosa della cucina.

La mia nonna che amava il blu, che odiava il nero, che amava la terra, la famiglia, la casa.

La nonna aveva delle trecce che sembravano corde di una nave. Quando d’estate le scioglieva (si schiettava) erano come un manto: capelli forti, orgogliosi, mai domati. Quando doveva asciugarli si poggiava alle tavole della bottega e il bianco giallo delle tavole faceva da sfondo al nero della sua chioma. Una statua in una nicchia.

Ai suoi piedi, spesso, c’erano le tele con i fagioli messi ad asciugare.

La nonna si beava del sole, come una pianta. Diceva che il sole era la cosa che le avevano ordinato quando si era ammalata “ai bronchi”. Era convinta che doveva farne “provvista”.

Sulla malattia della nonna si narra una storia miracolosa: pare che la bronchiectasia da cui era affetta quando mia mamma e zio Domenico erano molto piccoli, e il nonno era prigioniero in Germania, fosse stata erroneamente scambiata per tisi. Da lì la quarantena e il divieto assoluto di stare con i figli.

La nonna raccontava che la febbre la consumava, ma di più la solitudine, la paura di morire e il non vedere i suoi bambini. Poi un giorno, improvvisamente, le fecero visita due strani dot- tori; uno di questi le spalmò un unguento sul petto e lei si sentì rinascere. Era convinta che fossero due specialisti mandati dal medico curante (il dottore Zaffino), ma quando riguadagnò le stanze di sotto, la cucina e quindi i suoi libri di preghiera, capì, vedendo un’immaginetta, che i due strani medici erano i santi Cosma e Damiano.

Da lì tutta la famiglia, con mia madre e la zia Teresina in testa, annoverò tra i protettori i due santi. Da lì il pellegrinaggio a Riace, a piedi, ogni anno. Pellegrinaggio che tante volte ho compiuto anch’io e dove ho imparato a ballare la tarantella. Quando sento il suono dei tamburelli, immediatamente vedo le luminarie, gli archi di luce colorata che segnavano le feste patronali. Già nei primi giorni di agosto venivano fissati i pali di sostegno. Pali di legno, essenziali, che scomparivano nel buio lasciando il tripudio delle luci come sospese. Così arrivava agosto.

E con agosto arrivavano tutti i parenti emigrati; allora la nonna rinforzava la cucina: più patate, più peperoni, più polpette. Pensava a tutti, c’era cibo per tutti. La sera di San Rocco, il 16 agosto, scavava un pane grande e lo riempiva di peperonata, poi metteva la calotta e lo avvolgeva in uno strofinaccio e, prima che nel parco facessero ballare “il ciuccio”, cioè i fuochi pirotecnici che simulavano la sagoma di un somaro, lo tagliava e lo offriva a tutti. Niente ha avuto per me più quel sapore: l’olio che penetra nel pane e ne diventa parte, la crosta che avvolge un cuore centrale morbido e piccante.

Il pane della nonna come la terra. D’estate il pane duro veniva spugnato con l’acqua di pomodori e diventava frescura e sazietà.
Come la terra.

D’inverno, accompagnato ai fagioli, si trasformava in calore e sazietà.
Come la terra.
La mia nonna. La mia terra.

*Psicoterapeuta, fondatrice della Onlus Famiglieperlafamiglia e responsabile di Casa di Deborah, nel 2021 ha pubblicato Fimmini di ruga, il libro da cui è tratto questo brano e da cui prende il nome la rubrica che cura per il Vizzarro.

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