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Martedì, 20 Agosto 2019 10:11

Il ballo (vietato) del ciuccio e le tradizioni perdute

Scritto da Tonino Ceravolo
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Una tradizione tradita, violata, negata, è questo ciò che si legge nell’accorato comunicato stampa che il Comitato per la festa di San Rocco ha trasmesso ai giornali dopo che la notte del 16 agosto, per ragioni non attribuibili al Comitato, il ballo del ciuccio non si era potuto svolgere nel modo consueto: «In merito al “Ballo del Ciuccio” – hanno spiegato - esprimiamo il più sincero rammarico e comprendiamo quello di chi, serrese e no, è (sarebbe meglio dire, era) innamorato di questa tradizione. Il Ciuccio è tradizionalmente associato alle feste popolari dei Santi Rocco e Girolamo. Ieri, a malincuore, ci siamo sentiti stringere il cuore nell’assistere allo spettacolo che ci è stato imposto dalle autorità di Pubblica sicurezza, in base alle normative vigenti in materia di fuochi pirotecnici. […] Per l’affetto che ci lega alle nostre tradizioni, il nostro cuore piange più di tutti perché ieri è morta una tradizione secolare e non abbiamo fiducia che si possa riprendere facilmente». In altri termini, l’esplicita presa d’atto, da parte del Comitato, di una tradizione defunta che, per motivi di pubblica sicurezza, forse non si sarebbe più potuta svolgere come da secoli. Trascuriamo la circostanza di fatto, empiricamente rilevabile, che, in realtà, non si trattava della prima volta in cui il rito del ballo si discostava dalle modalità abituali, se già in passato la dionisiaca danza e l’esplosione pirotecnica del fantoccio asinino si erano svolte non in mezzo alla folla che assisteva allo spettacolo bensì su un palco, ma proviamo a spostare leggermente lo sguardo per dire come le tradizioni siano oggetti culturali non semplici da maneggiare e che pongono numerosi interrogativi. Intanto, parte del problema è già la definizione stessa del termine “tradizione”, che deriva dal latino tradĕre, con significato di consegna e trasmissione nel tempo, “da una generazione a quelle successive, di memorie, notizie, testimonianze” e che coinvolge anche ciò che non è rito, festa, cerimonia, ma racconto storico, mito, poesia, formula sacra, tutte forme, non a caso studiate dall’etnologia, tramandate oralmente (vocabolario Treccani). Ebbene, tale definizione e l’abitudine culturale consolidata possono far pensare che una tradizione sia qualcosa di immobile, che si è conservata perfettamente integra nel corso del tempo e che, pertanto, sia sostanzialmente rimasta da epoche immemorabili identica a sé, sottraendosi a qualsiasi modificazione di tipo storico. Peccato che tutto questo non sia vero, perché, al contrario, le tradizioni, nel tempo, muoiono e si modificano e che, persino, in una sorta di astuzia (antropologica) della ragione, si giunge a travestire e a presentare come tradizione ciò che tradizione non è (si tratta del fenomeno, ben noto e così definito da Erich Hobsbawm e Terence Ranger, dell’invenzione della tradizione). Insomma, si oscilla tra tradizioni “tradite” e tradizioni inventate e la stessa etimologia fornisce qualche aiuto in materia, se nel latino tardo la tradizione non venne intesa soltanto come “trasmissione”, ma anche come “tradimento”: il traditor è sì “chi consegna”, ma chi consegna “con tradimento” e, pertanto, ogni consegnare e trasmettere (questi sono i due lemmi associati al significato originario di tradizione) è un tradire, ossia un trasmettere infedelmente. Ogni tradizione, per il fatto stesso di essere tale, contiene già in sé il proprio continuo superamento, il suo “destino” è di essere modificata e tradita. Non solo, ma il suo “destino”, molto spesso, è di essere “tradita” a tal punto e così radicalmente da scomparire, da dissolversi nel tradimento totale e definitivo che coincide con il suo abbandono.

Alcuni esempi, tratti dalla memoria storica locale e dall’attualità festiva, rendono più perspicuo e visibile quanto si è appena detto. Non era forse tradizione la doppia festività civile dell’Assunta a Serra, da diversi anni scomparsa e sepolta? Non erano tradizione molti giochi di bambini e ragazzi, la mazza e lu spizzingulu, l’accipitotamu, lu pitiruoci, dei quali non vi è più notizia come di cosa viva e diventati, oggi, in qualche caso, materia per tornei di cui si svolge in questi giorni la “I edizione”? Non era stata, per secoli, tradizione la fiera degli animali a Pentecoste? E le “baracche” a Santa Maria? Di quante tradizioni bisognerà o si sarebbe dovuta piangere la dipartita? Di quante sono stati celebrati i silenziosi funerali? Rovesciando la prospettiva, su ciò che tradizione non è e tuttavia come tale si proclama e a questo statuto ambisce: quale tradizione incarnano le “castellane” di oggi, i neotemplari nelle processioni, le sagre di tutto e di più che si presentano come tradizionali persino quando utilizzano prodotti (si veda l’esempio delle patate) che solo in tempi relativamente recenti hanno fatto il loro ingresso nell’alimentazione delle popolazioni locali? E i palii, le presunte rievocazioni storiche, le avventure di cappa e spada a memoria di avvenimenti mai avvenuti, di fatti che sono sempre stati fattoidi? Di conseguenza: dopo quanto tempo (decenni, secoli, millenni) qualcosa diventa tradizione e chi ha l’autorità per dichiarare qualcosa tale (una Pro loco, un’amministrazione comunale, un comitato di studiosi, un’associazione di liberi cittadini, una singola persona che, invenzione per invenzione, riveli di aver fatto una scoperta, di avere trovato una tradizione che sino al minuto prima tale non era)?

Materia sfuggente, come si vede, resa ancora più insidiosa dalla circostanza che non è sempre facile capire perché una tradizione si dissolva e muoia. Tante volte è un’autorità, civile o religiosa, a farla morire (come a proposito della prospettata soppressione del ballo del ciuccio), perché in contrasto con le leggi di uno Stato o con la dottrina di una Chiesa, anche se non sempre basta un editto o una dichiarazione ufficiale perché effettivamente una tradizione scompaia. È difficile istituire un’anagrafe delle tradizioni scomparse che ne certifichi l’atto di morte nel momento in cui questa si verifica, come se avvenisse in un preciso istante, unico e inequivoco, considerato che in tanti casi le tradizioni provano anche a resistere, magari sotto mentite spoglie, trasformandosi poco o molto, subendo piccole o grandi metamorfosi. Altre volte la scomparsa di una tradizione avviene in maniera quasi insensibile, senza forse neppure accorgersene, mediante un’erosione lenta e continua che fa sì che, a un certo punto, qualcosa (un rito, una cerimonia, una festa, un gioco) non ci sia più, senza nemmeno capire esattamente come e perché. Nessuno e tutti ne hanno voluto la scomparsa. Come le istituzioni politiche, come i sistemi economici, come le creazioni architettoniche, anche le tradizioni soggiacciono alla storia e se sono storiche dalla storia sono modellate: erano state introdotte in quanto appartenevano a una forma di vita; si  abbandonano perché con un’altra, nuova e diversa forma di vita hanno poco da spartire. Bisogna tracciare una conclusione, per quanto veloce e provvisoria, per dire che forse pure la scomparsa del ballo del ciuccio è un segno dei tempi e rivela quella impossibilità della tradizione a essere del tutto fedele a sé stessa, se, come abbiamo provato a far vedere, in fondo una tradizione è tale soltanto perché si nega e viene, contemporaneamente, tràdita e tradìta.