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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Diverse volte, in questa rubrica, abbiamo fatto ricorso al libro Colonne mobile en Calabre dans l'anné 1852 di Horace Rilliet – apparso a Ginevra, probabilmente nell’anno successivo, presso la stamperia Pilet & Cougnard – indispensabile per documentare, innanzitutto dal punto di vista iconografico, aspetti della realtà serrese a cavallo tra la prima e l’immediata seconda metà del XIX secolo (dai riti di socialità alle “monache di casa”) per i quali il suo corredo di immagini rimane una delle pochissime fonti disponibili. E però è tanta e tale l’importanza di questo volume di 174 pagine in formato di album che dedicargli una “nuvola di carta”, come questa del mese di ottobre, periodo del viaggio del suo autore in Calabria, sembra quasi un fatto obbligatorio. Svizzero e chirurgo del tredicesimo battaglione cacciatori, Horace Rilliet (Unterseen, 17 novembre 1824 - Napoli, 6 agosto 1854) aveva composto il suo “diario” al seguito di Ferdinando II di Borbone tra il 27 settembre 1852 e il 30 ottobre seguente, data in cui la “colonna mobile” fece rientro, via mare, a Napoli, ottenendo, quasi un secolo dopo, in un articolo apparso sulla “Critica” nel 1939, la positiva attenzione di Benedetto Croce. Anche se il rammarico del filosofo napoletano per il fatto che “l'escursione del Rilliet” fosse rimasta “inosservata” e “dimenticata”, nonostante le sue pregevoli qualità, avrebbe oggi meno ragione di esistere se si pensa che a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso essa ha avuto modo di diffondersi e di essere letta senza la necessità di ricorrere all'edizione originale. Ristampata in anastatica nel 1960 dall'editore Gustavo Brenner di Cosenza, la Colonna mobile di Horace Rilliet ha conosciuto una prima traduzione italiana due anni dopo (a cura di Elvio Buccieri e per il medesimo marchio editoriale dell'anastatica), una più recente versione di Agostino Formica (Jason Editrice, 1991) e un’edizione Rubbettino nel 2008, nella quale, come già nell’edizione Jason, sono anche riproposti i vivaci disegni dell'autore a irrinunciabile pendant del testo scritto.
“Il più vivo quadro della Calabria” nella metà del XIX secolo
E c’è subito da osservare che riguardo al viaggio di Ferdinando II il “diario” di Rilliet non può certo reggere il confronto con altri testi, quali La fine di un Regno di Raffaele De Cesare (Città di Castello, Lapi, 1895), che, sebbene non composti in presa diretta rispetto ai fatti narrati, rivelano una capacità di fissare, con la forza di pochi aggettivi, i tratti peculiari di un carattere, compendiando, mediante cenni essenziali, le linee della politica del Borbone sostanzialmente disattenta verso le periferie del regno. Molto opportunamente, proprio Benedetto Croce aveva osservato come Rilliet fosse interessato, più che al “re visitatore”, al paese visitato, alle sue popolazioni e ai suoi costumi, al punto da fornire “il più vivo quadro della Calabria circa la metà del secolo passato”, circostanza, quest’ultima, in cui risiede l’interesse non secondario del volume. Ciò non vuol dire, tuttavia, che Colonna mobile in Calabria si esaurisca nella descrizione di paesaggi (naturali o urbani) o in osservazioni “etnografiche” sul carattere delle popolazioni “indigene”. Certamente, si nota talvolta uno sguardo quasi da entomologo, che scruta attentamente i propri “oggetti”, li analizza, li viviseziona e poi procede alla stesura di un'accurata relazione sulla loro fenomenologia. Ma l'attenzione per le usanze dei meridionali, l'osservazione della loro socialità, i riferimenti alla loro psicologia, si dispongono dentro una cornice nella quale sono ben presenti quegli accadimenti che, nei decenni precedenti il viaggio di Rilliet, hanno segnato significativamente lo svolgersi della storia calabrese. Il macro-sisma del 1783, il decennio francese e l'insorgenza delle bande brigantesche, la rivoluzione del 1848, costituiscono, nel racconto del chirurgo svizzero, altrettante tessere essenziali di un mosaico storico, non esente da errori, che è continuamente evocato, almeno ogni qual volta un luogo, un personaggio, un nome sollecitino un'associazione o un richiamo. Fondamentale nella costruzione del volume il ruolo dei numerosi disegni, che certamente ricoprono per il lettore di oggi un valore di documentazione, ma dei quali occorre anche segnalare il posto che giocano nella tessitura del libro, con il loro continuo dialogo e interscambio con la pagina scritta, tanto da costituire un parallelo racconto visivo che sottolinea i passaggi della scrittura, li illustra didascalicamente, ne rinforza e ne amplifica gli effetti, conferendo spesso al testo un surplus di leggerezza e candore.
Le pulci giganti di Taverna e gli spettri spaventosi di Spadola e Simbario
Alla vivacità dei disegni corrisponde l'analoga vivacità del testo scritto, nel quale il passato storico delle terre visitate si alterna continuamente all'attualità quotidiana della spedizione militare al seguito di Ferdinando II di Borbone. Rilliet è uno scrittore che non si nega e non nega al lettore i registri dell'ironico, del grottesco, del comico e che fa della lievità uno dei fili conduttori stilistici del testo. Si veda, tra i tanti possibili esempi di tale stile lieve, un episodio in cui l'effetto comico è ricercato attraverso un consapevole uso dell'iperbole, dell'amplificazione incredibile di una piccola disavventura quotidiana: “W. ci racconta che a Taverna nuova è stato infastidito da pulci talmente grosse che, essendo riuscito a impossessarsi d’una di esse, volle conservarla come ricordo e la diede, per portarla, al suo domestico, uomo molto robusto, che malgrado tutta la buona volontà, non poté tenerla sino a Montalto e fu
obbligato, considerato il suo peso notevole, a lasciarla per strada. Un grosso cane che passava di là le si lanciò contro e dopo un combattimento molto vivace uccise la pulce e la fece a pezzi”. Oppure si legga il brano (23a giornata, martedì 19 ottobre) in cui si descrive il trasferimento del gruppo verso Monteleone durante l'attraversamento di un ruscello, con risultati da gag comica, che sembrano anticipare le pantomime del cinema muto: “I muli che sino ad allora avevano dimostrato la migliore volontà del mondo, si fermano improvvisamente, abbassano la testa e fanno ruzzolare con armi e bagagli il cavaliere inesperto che s’era issato sulla loro groppa. Nel bel mezzo del fiume non si può convincere un ciuccio ad avanzare o a ritornare indietro. Il caporale K. che vuole averla vinta su questa testardaggine si precipita verso il recalcitrante a briglie sciolte, ma anche il suo ciuccio si ferma e non vuole più muoversi; calci e bastonate non servono a niente; la terribile bestia unendo la malizia alla testardaggine s’abbassa improvvisamente e deposita il caporale nel fango da dove questi esce sotto forma di divinità acquatica e melmosa, grondante da ogni parte e indignato per gli scoppi di risa che suscitano la sua disavventura. Più lontano sopraggiunge una ramificazione di un ruscello, molto stretta, da poter essere superata saltando; ed ecco in breve tempo ogni plotone in aria, fare a gara saltando. I primi arrivano facilmente dall’altra parte, ma quelli che seguono si ostacolano a vicenda e la maggior parte cade nella parte più profonda del ruscello”. Rilliet non rinuncia neppure a incursioni nella deformazione grottesca, come accade con gli abitanti di Spadola e Simbario, posti sulle soglie delle loro case con delle torce accese in mano e vestiti di bianco, che producono un'impressione solenne e spaventosa, tanto da far pensare “a una doppia siepe di spettri funebri”, anche se le successive grida di “evviva” rivolte al re sarebbero risultate rassicuranti per il drappello di soldati.
Gli "spettri" di Spadola e Simbario
E Serra sembra l’Oberland o il Valais
Lo sguardo di Rilliet, nell'osservare la Calabria, soggiace a una duplice ideologia che, a seconda delle circostanze, legge l'alterità nei termini dell'estraneità oppure la riconduce (di fatto negandola come alterità) dentro una logica del medesimo, dell'uguale a sé che viene ritrovato a migliaia di chilometri di distanza. Si ha un esempio del primo tipo nella sosta a Marcellinara, nella casa di Giuseppe Falvo, nella quale “uomini e bestie [...] vivono nella più pittoresca confusione e in grande promiscuità” e “la semplicità dei loro costumi ricorda i tempi primitivi dei patriarchi”, come ribadisce, esagerandone l'effetto, il disegno di accompagnamento, in cui suini e galline razzolano per terra, volatili si aggirano per l'aria e altri pennuti se ne stanno appollaiati in vari luoghi, mentre la famigliola è sparsa per la stanza allietata da un nugolo di infanti nudi, chi disposto sul pavimento chi sospeso nel vuoto all'interno di una culla.
La casa di Giuseppe Falvo a Marcellinara
Si trova, invece, un preciso ragguaglio documentale della seconda tipologia nelle pagine che il chirurgo svizzero dedica a Serra e al suo paesaggio naturale: “Il paesaggio ha interamente il carattere delle nostre montagne svizzere; una segheria di tavole, collocata sul corso del ruscello, lungo il quale sono sparsi tronchi d’alberi, la casetta grossolanamente costruita, con tavole mal collegate, la foresta di abeti da dove esce spumeggiante la cascata che fa girare la segheria, tutto ciò forma un quadro alpino dei più pittoreschi. Certamente in mezzo a un paesaggio simile si fa fatica a non credere di essere in un paesaggio del Nord, in una delle tante vallate sperdute nelle montagne dell’Oberland o del Valais, mentre ci troviamo nell’estremità dell’Italia, nella più calda provincia del paese, dove come canta Mignon, fioriscono i limoni e le arance brillano come palle di fuoco nel loro scuro fogliame”. Come si vede, il carattere alpestre del paesaggio viene qui posto in contrapposizione con il luogo comune, accettato acriticamente, di una Calabria terra di agrumi, nella quale il territorio delle Serre rappresenterebbe un’anomalia. Chi guarda non riesce a “porre tra parentesi” il proprio corredo di immagini acquisite e a scrutare con “occhi nuovi” una realtà fino a quel momento pressoché sconosciuta: si stupisce se non trova quello che si attendeva di vedere e si compiace nel ritrovare proprio ciò che mai avrebbe pensato di osservare. Naturalmente, il problema non è quello della fedeltà della descrizione: certamente la promiscuità tra uomini e animali vista a Marcellinara corrisponde a quanto l'autore ha osservato; certamente il paesaggio montano ammirato a Serra poteva dare l'impressione di una sorta di Svizzera mediterranea. Ma il fatto è che la visione dell’osservatore tende a leggere il territorio mediante una logica del “riconoscimento” che non è eccessivo definire etno-centrica: dal punto di vista dello sviluppo civile si contrassegna il territorio con lo stigma di un'alterità difficilmente emendabile, caratterizzato com'è dal marchio dell'anti-modernità e dell'arretratezza; nel caso del paesaggio naturale dell'Appennino calabrese si predispone una reductio ad unum che riporta l'altro al sé. La pre-comprensione messa in opera dal viaggiatore produce, in entrambi i casi, uno spaesamento che, a ben vedere, è un sentimento delle cose e dei luoghi che si riscontra in molti resoconti di viaggio, tanto che ci si trovi di fronte all'esotico e al “pittoresco” quanto che ci si imbatta nel conosciuto e familiare, là dove meno sarebbe stato lecito attenderselo.
Una processione a Serra
Tra pranzi in casa Sadurny e caffè serresi “microscopici”
Ma bisogna anche aggiungere che di Serra, a cui sono dedicate ben due giornate di questo diario di viaggio (il 17 e il 18 ottobre del 1852) e 18 disegni, Rilliet annota e descrive molte altre cose: l’ospitalità della famiglia del medico Sadurny coronata da un “pranzo succulento” anche in compagnia della “monaca di casa” e di “Donna Michelina” (“bellissima persona, si occupa della mondanità del nucleo familiare; e lo fa con molta grazia”), la visita di Ferdinando II alla chiesa Matrice, i costumi degli abitanti (“il cappello calabrese è completamente sparito”, mentre “le donne portano sulla testa un velo piegato a quadrato”), i “caffè microscopici” dove i soldati vanno a consumare “biscotti e rosolio di prima qualità e a doppia crema”, Santa Maria e il suo laghetto-stagno, la Certosa e la bellezza dei suoi ruderi prodotti dal terremoto settecentesco. E sicuramente non rinuncia, come tanti altri viaggiatori giunti in Calabria tra Sette e Ottocento, a qualche incursione sul carattere dei calabresi, colto, nel suo caso, proprio durante il pranzo in casa Sadurny: “Il numero delle domande che mi furono rivolte, per farsi un’opinione su di me, è favoloso. Ciò succedeva, del resto, in tutti i luoghi dove alloggiammo dai privati. Il calabrese, diffidente per natura, vuole assolutamente sapere chi è lo straniero con cui ha da fare e lo interroga con una curiosità e un’insistenza che sfiorano spesso l’indiscrezione. Una semplice risposta non sembra accontentarlo; ritorna alla carica e in un modo indiretto rifà la stessa domanda, confrontando poi le due risposte”. Ma non manca neppure una valutazione generale sul paese, che è uno degli ultimi visitati da Rilliet prima della sua partenza per Napoli, di chiaro segno positivo, anche nel confronto con gli altri posti della Calabria: “[…] Una graziosa cittadina, mantenuta ben pulita, ben costruita, con strade larghe, pavimentate con cura, piazze spaziose, circondate da belle case e chiese. Il piccolo fiume dell’Ancinale, che sfocia nel mare, vicino Satriano, bagna le sue mura e mantiene intorno alla città una vegetazione sempre fresca e ombrosa. La città fu fondata da Roberto il Guiscardo e ha una popolazione tra i 5.500 – 6000 abitanti. L’interno delle case è infinitamente più confortevole e più pulito degli altri luoghi della Calabria che abbiamo visitato. Dal mio padrone di casa le scale e i pavimenti sono in legno e, entrando per la prima volta, abituato com’ero alle pietre e ai mattoni con cui sono pavimentate le case italiane, fui molto stupito di sentire risuonare i miei passi”. Segnalato il grossolano errore di ritenere Serra fondata da Roberto il Guiscardo, quello che appare più significativo, alla fine, è il giudizio sul paese, come si vede, senza ombre e che forse lascia qualche spunto di riflessione anche per l’oggi.
Rilliet davanti ai ruderi della Certosa
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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