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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Una figura di rilievo nella storia religiosa della Calabria in età moderna quella del beato Antonio da Olivadi, istitutore a Serra nel 1694 della confraternita di Maria SS. dei Sette Dolori e religioso dal severo stile di vita ascetico, “con se stesso quasi crudele, per le rigorosissime penitenze”, secondo quanto riporta un’anonima Vita dedicata a un altro missionario cappuccino (Vita del Beato Angelo di Acri, missionario cappuccino della Provincia di Calabria Citra nel Regno di Napoli, Tipografia Olivieri, 1826). Propagatore, tramite un’intensa attività di predicazione, delle devozioni alla passione di Gesù e a Maria SS. dei Sette Dolori, al suo nome sono legate la diffusione del culto dell’Addolorata, oltre che a Serra, nella provincia di Cosenza (per la quale fu eletto Provinciale del suo Ordine il 20 gennaio 1698), la fondazione dell’ospizio della Madonna del Pianto a Campotenese, la pubblicazione di libri quali l’Anno doloroso, overo meditationi sopra la vita dolorosa di Giesu Christo Signor Nostro, per tutti li giorni dell’Anno (Napoli, presso Nicolò Valerio Stampatore, 1709) e l’Anno doloroso di Maria, ovvero Meditationi sopra la sua Dolorosa Vita distribuite per tutti li giorni dell’Anno (Napoli, Felice Mosca, 1712). Quando Antonio da Olivadi giunse a Serra, tuttavia, l’impulso del missionario cappuccino per favorire aggregazioni religiose laicali non si può dire trovasse un retroterra deserto o mai battuto.
Prima dell’Addolorata: il Santissimo Sacramento, il Santissimo Rosario, Santa Maria delle Nevi
Infatti, anche nei decenni antecedenti la fondazione dell’Addolorata, il paese aveva conosciuto una sua significativa storia religiosa, nella quale la presenza di comunità laicali e di luoghi pii è riscontrabile, limitatamente ad alcune epoche, con sicura precisione. Ne danno testimonianza la relazione e i relativi decreti della Visita apostolica che Mons. Andrea Perbenedetti, vescovo di Venosa, effettuò, a partire dalla seconda metà di luglio del 1629, presso la certosa di S. Stefano del Bosco, nel paese di Serra e nei territori sottoposti alla giurisdizione del monastero. Nella chiesa parrocchiale di San Biagio l’illustre prelato visitò la comunità del Santissimo Sacramento; quella di Santa Maria delle Nevi, al cui altare era annesso un Monte di Pietà che aveva la funzione di far celebrare delle messe in suffragio dell’anima dei propri aderenti in misura proporzionale alla quantità degli oboli versati in vita; quella del Santissimo Rosario, caratterizzata dall’uso di abiti di sacco, bianchi e col rocchetto nero. Altre comunità del Santissimo Sacramento e del Santissimo Rosario il vescovo ebbe modo di trovare nella chiesa parrocchiale di Spadola, paese che ospitava nella chiesa di San Nicola anche una comunità laicale col medesimo titolo. Dell’esistenza di una congregazione laicale “chiamata del popolo”, eretta nella chiesa di San Giovanni a Serra e certamente presente nel Settecento, siamo, peraltro, informati da una lettera del priore certosino Dom Pietro Paolo Arturi conservata nell’Archivio di Stato di Napoli. In altri termini, allorquando la confraternita di Maria SS. dei Sette Dolori cominciava il suo cammino andava ad “innestarsi” in un terreno nel quale la partecipazione dei laici alla vita della Chiesa era già un dato acquisito, ma in cui, tuttavia, la presenza di un nucleo significativo di altre comunità laicali lasciava ugualmente spazio per la diffusione popolare di nuove devozioni e, in particolare, di quella devozione mariana che a Serra troverà altri momenti degni di rilievo nel duplice culto (nel quartiere di Terravecchia e in quello di Spinetto) dell’Assunzione della Vergine.
“Ragionando” con i certosini
Decisivi per la presenza a Serra del missionario cappuccino furono, da quel che sembra, i rapporti intrattenuti con la Certosa di S. Stefano del Bosco, presso la quale si recò per “ragionare” con i novizi, come scrive un suo biografo, durante i loro esercizi spirituali, rendendosi anche protagonista di un episodio che attesta l’intensa partecipazione spirituale dell’Olivadi alla passione di Cristo: “In tal genere, (per tacer l’altro), riferisce il Padre D. Tommaso Prestinace, dignissimo Priore della Certosa di San Stefano, che pregato il Servo di Dio dal Padre Priore Bardari, a ragionar a suoi Novizj, (l’un de’ quali era il predetto Padre D. Tommaso), in tempo de’ loro esercizi spirituali; appena una, o la seconda volta prese a discorrere, sù la Passione di Cristo, a quel Religioso drappello, che acceso in volto, e dato in accessi di lagrime, e di gridori; quasi da improvviso, crudo colpo ferito, fuggì da loro, ed inselvatosi nel bosco, più a loro non fece ritorno”. Di un secondo episodio è teatro la Certosa di Serra, quando, in conseguenza di una grazia mancata, vi fu l’intervento del missionario cappuccino: “Vivevano afflittissimi Domenico Calabrese, e Superna Pulerà, della Terra di Monterosso, Conjugati, abitanti in Capistrano; ad oggetto d’avere due figli, quanto vaghi di volto, tanto deboli di membra, per deplorabile paralisia. Ricorsero per la salute de’ Figli, al celebre Santuario di San Stefano del Bosco, ove riposa il Corpo del Patriarca S. Brunone; e non avendo ricevuto la grazia, pensarono presentar gl’infermi al Padre Antonio, che trattenevasi in quei dì, in quella Certosa, affinché pregass’ egli S. Antonio per loro, e ricevessero i tormentati Figlioli la sospirata salute. Così fatto, ebbero dall’umile Religioso risposta: dover pregar loro medesimi S. Antonio, che forse sarebbono più facilment’ esauditi di lui, ch’ era di loro più peccatore: tuttavia portassero i loro Figli alla Lacina, il giorno del Santo: (era questi un Dormitorio, con Chiesa, e molte Celle, da lui edificate nel cuore d’una Montagna), che ivi tutti insieme chiederebbono al Santo la grazia. Ubbidirono Domenico, e Moglie: e portati i Figlioli alla Chiesa della Lacina, intonarono per suo ordine, quei Romiti, e Capuccini, che erano in compagnia del Padre, il: Si quaeris miracula; ritirandosi egl’ infrattanto a breve privata orazione. […] Credettero i Divoti al detto, e ne viddero veri gli effetti. Antonio lor Figlio maggiore morì, sù i prinzipj di Agosto di quell’ anno medesimo: e Francesco secondo genito, da lì ad un anno, e mezzo. Nacquero indi da loro altri cinque Figli, tutti d’ottima salute; motivo di benedir’ essi, ed altri l’Altissimo, ed ammirare la gran virtù dell’Uomo di Dio”. Curioso modo di ragionare da parte del biografo, si potrebbe aggiungere incidentalmente: tale e tanta fu la grazia ottenuta che i due ammalati entrambi morirono, ma per ricompensa di tali morti la famiglia si ebbe altri cinque figli in buona salute. Grazia, cioè, ai genitori, non ai due poveri ammalati di “paralisia”, che, invece, per questa loro “debolezza di membra” passarono a miglior vita.
Nel luogo della Certosa “detto lo Cici”
Un’ulteriore e chiara testimonianza del rapporto che legò il frate missionario alla Certosa si ha, infine, in una Relazione sulla morte del Servo di Dio Padre Antonio da Olivadi allegata alla presunta Autobiografia del beato ritenuta apocrifa: “Nel poi 1720 nel Mese di Gennaro chiamato da don Francesco Socira all’ora Priore di S. Stefano del Bosco per conferirli alcuni suoi bisogni spirituali, a Galesso si portò fin alla torre di Catanzaro, e d’ivi con la barca fino al casino detto lo Cici, luogo de’ PP. Certosini: nella qual partenza di Simero, licenziatosi da’ Frati li disse che veniva a morire in Squillace […]”. Antonio da Olivadi sarebbe morto nel convento dei Cappuccini di Squillace il 22 febbraio del 1720 e il processo per la sua beatificazione avrebbe avuto inizio il 6 luglio del 1735 per concludersi il 21 marzo 1746. L’anno successivo sarebbe apparsa a Palermo, nella stamperia di Stefano Amato, la Vita del beato composta dal padre Lodovico dall’Olivadi (dalla quale sono stati tratti gli episodi nella Certosa sopra ricordati) e le sue opere dedicate agli “anni dolorosi” di Gesù e di Maria avrebbero conosciuto, nei decenni seguenti, una circolazione editoriale anche extra regionale, a tal punto che, come si apprende da un’edizione torinese del 1923 presso Marietti, il fondatore della “Piccola casa della Divina Provvidenza”, Giuseppe Cottolengo, usava “commendare ai suoi confidenti” e lasciava “per regola ai singoli suoi figli della Piccola Casa, la quotidiana lettura dell’Anno Doloroso del Ven. Padre Antonio dell’Olivadi”. Appartiene a questa storia anche il ritrovamento delle reliquie del beato, scoperte nella Cattedrale di Squillace nel dicembre del 1995, durante l’episcopato di Mons. Antonio Cantisani, insieme con un vaso d’argilla che conteneva, come ha scritto Guido Rhodio in un suo articolo su Vivarium Scyllacense, “la terra della tomba, frammenti delle vesti e degli indumenti del Venerabile Cappuccino”.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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