Domenica, 11 Agosto 2019 09:57

L’invasione dei cinghiali nei luoghi di San Bruno

Scritto da Tonino Ceravolo
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La serie estiva che Marco Belpoliti, nelle pagine culturali di Repubblica, sta dedicando al mondo animale ha, tra gli altri, il merito di ricordare quanto la percezione che gli uomini hanno di quel mondo sia influenzata dalle sue immagini mitiche, dalle leggende, dai racconti presenti nelle culture popolari. La volpe “astuta” e il lupo “cattivo” riflettono certamente situazioni esistenti nelle società pre-industriali, ma sono anche il risultato di complesse genealogie culturali nelle quali, molte volte, è possibile rintracciare le origini di sospetti, diffidenze e paure. Così è, per esempio, per il cinghiale (Sus scrofa nella classificazione scientifica linneana), compagno quasi sempre invisibile, ma ben percepito, del footing e delle più modeste passeggiate di tanti abitanti delle Serre nei luoghi di San Bruno. La presenza del cinghiale si coglie dai segni: buche profonde e sempre più frequenti scavate nella terra (forse come covile notturno), porzioni di prati erbosi omogeneamente appiattite al suolo (forse perché luogo di momentaneo riposo di qualche famigliola di questi selvatici suini) mentre il giorno prima non lo erano, piccoli passaggi ricavati tra una rete di recinzione e il terreno (forse per consentire uscite, esplorazioni e vagabondaggi degli ungulati in un’area più vasta). Ma tale presenza non si coglie soltanto dai segni, anzi, si sta facendo sempre più visibile, sino quasi a porsi, in qualche caso, con i caratteri della domesticità o della semi-domesticità. Con qualcuno che racconta, in uno dei tanti conversari che si fanno tra passeggiatori che si incontrano lungo strade e sentieri, di pasti consumati insieme da gatti e cinghiali, praticamente di fronte all’uscio di casa, nell’ora meridiana o di qualcun altro che dice di un avvistamento di un intero nucleo famigliare suino nel pieno del pomeriggio, proprio là, su quella strada da poco attraversata (ai margini della quale buche continue scavate nel terreno, con l’effetto straniante di un intenso bombardamento, e sforamenti di recinzioni a filo di terra dicono esattamente dei passaggi e delle scorribande di questa popolazione zannuta, come si accennava pure sopra). Poi ci si mette anche l’apparato sensoriale, con la coda dell’occhio che imprigiona per un attimo un piccolo essere in fuga venuto fuori da qualche recente nidiata o con la visione non molto lontano di qualche altro cucciolo. E se ci sono i cuccioli ci sarà anche la madre e forse qualche altro cucciolo ancora e, insomma, un’intera famiglia di cinghiali. E quando qualcuno dice, nello sparuto gruppo di umani formatosi all’ombra di un abete o di un pioppo, che si tratta di un’invasione è difficile non dargli ragione e non interrogarsi sulle cause e sulle conseguenze di questo che a molti appare come un autentico disastro (e ancor più a chi racconta di aver dovuto risistemare più volte l’orto devastato da qualche devastante orda o di essere finito con la macchina fuori strada, per evitare che l’apparizione improvvisa di un suide si trasformasse in uno sgradevole impatto).

Poi, c’è anche da dire che i cinghiali a molti non sono simpatici e che, ad alcuni, fanno paura. E qui si riaffacciano, per chi voglia percorrerle, le genealogie culturali, a partire da Adone che venne ucciso, secondo una versione del mito, da un cinghiale mandatogli da Ares geloso di Afrodite. Oppure da un cinghiale che era lo stesso Ares così trasformato per effetto di una metamorfosi o forse era Apollo che in questo modo vendicava il figlio Erimanto, il quale aveva scorto Afrodite nuda e che, per questo, era stato privato dalla dea della vista. In altri termini, i cinghiali, nell’immaginario collettivo, possono essere rappresentati, sin dalla mitologia antica, come creature feroci, che non esitano a uccidere. Ne diede un autorevole avallo nel settimo secolo anche Isidoro di Siviglia che, nel libro VII delle Etimologie, scrisse che il cinghiale è così chiamato (aper in latino) a causa della sua ferocia (feritate), in seguito a un processo linguistico di rimozione della F e di sua sostituzione con la lettera P. Analogamente, Bartolomeo Anglico (XIV secolo) sottolineò, nel diciottesimo libro del trattato enciclopedico De proprietatibus rerum,  la ferocia e la crudeltà del cinghiale, che lo pongono in grado persino di disprezzare la morte, abilissimo nella lotta a usare le zanne come una spada e a resistere alla punta della lancia del cacciatore. Desta, perciò, qualche sorpresa che in alcuni dei più celebri bestiari medievali, quali il Physiologus o il Bestiaire di Gervaise, il cinghiale non compaia, mentre vi vengono riportati, tra gli altri, il cavallo, il cervo, la donnola, l’elefante, la pernice e il riccio. Forse perché la sua natura poco rinviava a quelle virtù morali o a quelle verità mistiche che i bestiari volevano raffigurare? O perché esso mal si prestava a interpretazioni allegoriche o simboliche?

Qualcosa della dimensione del mito sopravvive, tuttavia, anche in epoche più recenti e lo si capisce, per esempio, in un articolo del 1897 di Nicola Misasi – Nelle foreste di Serra San Bruno – in cui la caccia al cinghiale sembra avere qualcosa dell’epos antico, attribuendo a chi la compie una statura umana e morale che sopravanza quella, molto più modesta, degli autori di libri, come è per il vecchio cacciatore che invita lo scrittore a una battuta tra i boschi: «Un’ora prima dell’alba il vecchio, che aveva sessant’anni nel libro del Comune, ma ne aveva venti nel sangue, nei muscoli, nel lampo degli occhi, venne a picchiare alla mia porta. Era già in arnese da caccia, gaio, un po’ impaziente pel mio indugiare a rimuovermi dal calduccio e ad infilare le grosse brache di fustagno, la giacca foderata di pelle, a calzare i grossi stivaloni per la neve, a mettere a tracolla il carniere con la fiaschetta del rhum, il pane, il salame, la corta pipa di creta. E poiché mi ebbe messo su, e vestito e armato di quei panni, di quegli arnesi non miei, mi pose in testa un cappellaccio con una penna e mi porse una cabina a doppia canna. Infallibile – mi disse – ha ucciso venti cignali e un centinaio di caprii. E si andò». Si ritrovarono la sera al banchetto in onore dello scrittore ospite, una volta conclusa la caccia, «ma in mezzo a tutti quei maschi e fieri montanari, pei quali l’uccidere un caprio a mezzo il salto o un cignale a mezzo la corsa era un titolo d’onore più che d’aver pubblicato venti libri, mi sentivo assai umiliato». Però il quadro non sarebbe completo se non si dicesse che il rapporto tra l’uomo e il cinghiale non è sempre risolto, nelle rappresentazioni culturali, nei termini agonistici e di contrapposizione feroce (del cinghiale verso l’uomo nel mito greco e dell’uomo verso il cinghiale nella pagina di Nicola Misasi) che abbiamo incontrato finora. Esistono anche rappresentazioni all’insegna della mansuetudine e della convivenza pacifica, della prossimità che si fa domesticità, come ben si vede quando questo animale diventa attributo iconografico di Sant’Antonio abate, padre del monachesimo, e se ne sta tranquillo intento al pascolo, mentre il santo è concentrato nell’orazione. Non un maialino, come spesso accade nelle raffigurazioni iconografiche di Sant’Antonio, ma proprio un cinghiale, che il santo protegge (e non potrebbe essere diversamente) perché anche lui appartiene al creato.

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