Stampa questa pagina
Sabato, 09 Marzo 2019 23:43

L'odore dell'inferno

Scritto da Redazione
Letto 3234 volte
Foto di Salvatore Federico Foto di Salvatore Federico

La giornata di mercoledì 6 marzo è stata tristemente caratterizzata dalla tanto ambita attuazione dello sgombero della tendopoli di San Ferdinando. Sarebbe meglio chiamarla baraccopoli però, o ghetto, dato che il totale isolamento da parte di tutti i tipi di istituzione nei confronti delle persone costrette a viverci ha causato situazioni di degrado ed emarginazione sociale. Gli effetti di questi due fattori sono risultati infatti ben visibili in questi anni.

Il totale abbandono della zona ha fatto sì che si venissero a creare le condizioni per un'autonoma organizzazione delle proprie 'abitazioni', impegno al quale un bracciante pagato pochi centesimi a cassetta di pomodori o arance non può sopperire da sé. Men che meno alla manutenzione o ad un minimo stato di sicurezza del luogo. Questa carenza grava direttamente sui migranti, e ha portato a tre importanti incendi nella tendopoli solamente negli ultimi due anni che hanno causato due morti. Ricordiamo anche l'uccisione di Soumaila Sacko, migrante vicino ai sindacati, che si stava procurando materiale di recupero utile a una delle tante baracche, quando è stato raggiunto da alcuni colpi di fucile. Lo stato di emarginazione sociale è dettato soprattutto dall'assoluta vulnerabilità di persone considerate manodopera a basso costo e quindi relegate agli ultimi gradini della società, che fa di tutto per rendere invisibile la loro esistenza agli occhi dell’opinione pubblica. Uno stato che interviene solamente per reprimere gli effetti di situazioni tragiche, come quella dell'uccisione, in circostanze ancora non chiare, del ventisettenne Sekine Traore da parte di uno dei tre carabinieri intervenuti a sedare uno dei comprensibili casi di esasperazione causati dalla vita nel campo.

La nuova politica promossa da un anno a questa parte dal Ministro degli Interni, in continuità con le leggi attuate dal suo predecessore Marco Minniti, vede accentuare ancor di più il carattere diretto dello Stato e l'estirpazione dei rami secchi senza risolvere il problema alla radice. Nella suddetta giornata, più di 600 agenti hanno messo in atto, in pieno stile "salviniano", l'opera di distruzione di tutte le baracche presenti nell'area, con annesso show mediatico, e la deportazione di tutti coloro che vivevano nella tendopoli verso un'ignota destinazione. In una terra in cui la 'ndrangheta regna sovrana, il caporalato regola l'economia dei campi, i braccianti vengono costretti a lavorare in condizioni disumane e per una misera paga, l'unica soluzione che viene messa in atto è quella dell'ennesimo annientamento fisico e morale di ciò che non è la causa, bensì l'effetto, della decadenza in cui la politica italiana versa e continua inesorabilmente a farlo.

Come Progetto Azadì sentiamo di dare tutta la nostra solidarietà a coloro i quali sono stati colpiti da questa operazione e che continuano a vivere nella precarietà e nella paura di essere rimandati nei luoghi da cui sono scappati, con la speranza che prima o poi tutte e tutti possano avere un posto in cui vivere e delle condizioni lavorative dignitose. Abbiamo deciso di raccogliere la testimonianza diretta di Salvatore Federico, un fotoreporter indipendente che da anni è impegnato su diversi fronti sul territorio contro le ingiustizie sociali e che segue da vicino la questione di San Ferdinando.

Esiste una seconda tendopoli organizzata dallo stato, affidata a privati, più sicura e soggetta a stretta sorveglianza che accoglie già centinaia di persone. Sai quali sono le preoccupazioni delle persone rimaste fuori dal suddetto spazio che non hanno i requisiti per rientrare nelle soluzioni adottate prima dello sgombero?
«L'ennesima, ed attuale tendopoli è sorta poco più di un anno fa. Le tende sono della protezione civile ed all'interno della tendopoli sono garantiti i servizi essenziali come acqua, elettricità e servizi igienici. La sicurezza della tendopoli è affidata ad esterni che controllano chi entra e chi esce, infatti gli abitanti della tendopoli hanno un badge. All'interno, con i nuovi arrivi, ci sono circa 1000 persone, i richiedenti asilo non sono riusciti ad entrare, sono stati trasferiti negli ex Sprar e Cas nelle varie provincie Calabresi, ma anche fuori regione. Alcuni invece si sono spostati verso altre destinazioni in modo del tutto autonomo.

Abbiamo appurato dai media nazionali che sono stati mobilitati più di 600 agenti sul luogo. Hai avuto difficoltà nel documentare le ore passate nel campo? Hanno agito in modo coatto?
«In realtà erano molti di più gli agenti impiegati nell'attività di sgombero. C'è stato un dispiegamento di forze e mezzi davvero notevole, c'erano anche due elicotteri che sorvolavano la zona. Probabilmente si aspettavano una qualsiasi forma di resistenza da parte dei lavoratori migranti, ma è stato tutto davvero tranquillo. Era prevista un'area riservata a giornalisti ed operatori tv, ma onestamente volevo approfondire un po' di più la situazione, dall'interno, quindi in qualche modo sono riuscito ad entrare».

È evidente il fatto che persone impossibilitate all' inserimento in ambienti dignitosi finiscano con l'essere ghettizzate in zone lontane dai centri urbani. A questo si aggiunge la necessità di rifugiarsi in soluzioni lavorative di sfruttamento. In merito ai fatti di San Ferdinando ritieni ci sia un nesso con le due cose?
«I lavoratori migranti delle campagne sono soltanto l'ultimo anello di una filiera produttiva. Il sistema economico capitalista impone un adeguamento dei prezzi dei prodotti a vantaggio ovviamente della grande distribuzione, è ovvio che il piccolo produttore di agrumi per poter rimanere in un determinato circuito di vendita deve adeguarsi al sistema dominante, tagliando i costi il più possibile. I tagli naturalmente vengono fatti sulla manodopera, proprio per questo la paga giornaliera di un lavoratore migrante si aggira intorno ai 20 massimo 30 euro per circa 9-10 ore di lavoro, ovviamente tutto in nero, cioè senza contratto di lavoro. La ghettizzazione, quindi, non è altro che una conseguenza a questo continuo sfruttamento dei lavoratori migranti».

Abbiamo assistito ad un episodio di portata mediatica internazionale. É palese il fatto che l'operato non contenga nulla di risolutivo. Da testimone diretto, ritieni che quanto accaduto contenga elementi riconducibili ad una montatura propagandistica?
«Lo sgombero andava fatto. Onestamente penso che quella all'interno della baraccopoli non era vita, era un inferno, mancava tutto quello che era necessario per poter vivere, mancava l'acqua, l'elettricità i servizi igienici. Tutto insomma. I video e le fotografie visti in questi giorni possono testimoniare soltanto in parte come realmente è la situazione all'interno della baraccopoli. Gli odori, gli odori, sono quello che più si avvicina alla mia idea d'inferno, penso di non esagerare nel dire questo. Sì lo sgombero andava fatto, ma non così. Bisognava trovare una soluzione adeguata, possibilmente dignitosa. Bisognava ascoltare le esigenze dei lavoratori migranti ed insieme a loro trovare una soluzione definitiva. Da poco era nato un comitato per il riutilizzo delle case sfitte della piana. Un comitato che in qualche modo voleva facilitare la possibilità da parte dei lavoratori migranti di vivere in case normali come tutti gli uomini normali. Una parte di popolo italiano, per fortuna soltanto una parte, ha bisogno di vedere queste azioni, per sentirsi più sicuro, ma è soltanto propaganda, ed il ministro Salvini è un maestro nel fare propaganda. Per il momento la baraccopoli è stata sgomberata, ma scommetto che tra qualche mese si sentirà nuovamente quell'odore».

*"Azadì", sostantivo kurdo, significa "libertà". Il progetto Azadì nasce con lo scopo di riconsegnare spazi interni all'università alla gestione diretta degli stessi studenti. In un momento di trasformazione del mondo accademico il collettivo si propone di portare avanti politiche di autogestione indipendenti dalle logiche della politica associativa universitaria. Siamo student* precar*, autogestiamo uno spazio all'Unical. "Liberiamo spazi e tempi" per riprenderci la libertà di pensare, esprimerci e autorganizzarci.