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Sabato, 12 Maggio 2018 11:53

La grande bruttezza

Scritto da Salvatore Albanese
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Alberi buttati come roba vecchia e inutile, da disfarsene perché non serve più. Gettati via come fotografie del passato che, sì, raccontano momenti importanti e gradevoli della nostra vita, ma che adesso non hanno più nessuna utilità, anzi sono di troppo, un impiccio. Occupano spazio e dobbiamo levarceli dai piedi. Non possiamo fare altro che strapparli dalla terra, ucciderli.

Ci sarebbero enne cose da dire su quello che – denunciato ieri dal Vizzarro – è stato deciso e realizzato per i platani del parco verde di San Rocco, a Serra San Bruno: esemplari pregevoli, alcuni piantati nella seconda metà dell’800, alti quasi 30 metri e finiti al suolo dopo un incontro fin troppo ravvicinato con le motoseghe e con le intenzioni villane di chi li possiede o meglio li possedeva. Perché è stato il proprietario di quegli alberi a decidere di tagliarli, e lo ha fatto perché quegli alberi sono suoi ed essendo suoi ne fa quello che meglio crede, anche ucciderli. In un luogo per lungo tempo abbandonato al degrado a causa dell’eterna contesa tra il Fondo Clero e la diocesi di Catanzaro-Squillace – rispettivamente proprietari della chiesetta eretta in onore del Santo di Montpellier e della stessa area verde – si è semplicemente avvertita l’impellente necessità di fare largo. Di concedere ampio respiro a una struttura sacra, la chiesa stessa, che, eliminate le fastidiosissime fronde verdi, continua tuttavia a crollare lentamente su se stessa. Ma questa è un’altra storia.

Le “lesioni dolose” che trasformano la natura in bruttezza – al di là delle considerazioni sul male che causiamo al paesaggio e a noi stessi, al di là degli aspetti economici che stanno dietro molte scelte prese abitualmente nel settore da istituzioni di ogni genere e grado – fanno intuire più di ogni altra cosa come chi ha in mano le redini del potere decisionale (politico o tecnico che sia) manchi completamente del senso del bello.

Ed è inutile tirare in ballo i tanti casi del passato (uno tra tutti lo sventato sterminio degli abeti bianchi del bosco Archiforo del 2014), l’approccio è sempre quello. Alberi che muoiono uccisi dall’uomo per dinamiche di disponibilità e possesso: avvicinarsi alla natura, violentarla e generare bruttezza perché quel pezzo stesso di natura è “mia”. Riguardate per favore le foto del prima e del dopo: possibile che le istituzioni possano aver autorizzato un intervento che non lascia un luogo come prima ma, piuttosto, lo abbruttisce e lo depaupera sensibilmente? Purtroppo quello che è avvenuto al parco di San Rocco, come abbiamo già detto, non è un caso isolato ma si inserisce in un generale modus operandi della mano privata e di quella pubblica che considera gli alberi una materia inerte, utile solo (se va bene) a creare profitto. E non è una questione da ambientalista estremo che mentre cammina sta attento a non schiacciare la formica sotto i piedi. Non è solo rispetto o gratitudine verso gli alberi che ci fanno “vivere”. È prima di ogni cosa senso estetico. È la concezione di “bellezza” che si desidera in centri abitati in cui si impiegano quotidianamente migliaia di euro di fondi pubblici e decine e decine di unità di forza lavoro per mantenere il contesto urbanistico pulito e ordinato. E poi basta una mattinata e l’autorizzazione spedita via fax da qualcuno che in quel posto non c’è mai neanche stato per cancellare con violenza secoli di storia e, appunto, di bellezza. Un intervento che non dovremmo esitare a definire “massacro ambientale” e che, col massimo degli sforzi, potremmo inquadrare in un alto esercizio di crassa ignoranza che finisce però per recare un danno irreversibile a tutta la comunità. E non servirà parlare di alberi malati, pericolosi o pericolanti (i ceppi rimasti ancorati al suolo spiegano chiaramente che le condizioni di salute degli alberi erano buone), perché comunque si sta parlando di platani, alberi monumentali che proprio per via della notevole resistenza, anche alle intemperie meteorologiche, sono universalmente conosciuti come piante ornamentali per eccellenza, sui viali, nei parchi e nei giardini.

È evidente che chi ha deciso di tagliare quegli alberi, se avesse nutrito un minimo di senso del bello e di conoscenza dell’utilità che hanno alberi di quel genere non avrebbe fatto quello che ha fatto. È allora questione di cultura e conoscenza perché un uomo che vive a contatto con gli alberi sa bene nell’intimo che è vivo grazie a loro. Sa bene che appena uscito dalla pancia della madre gli alberi sono “entrati” nei suoi polmoni adottandolo. Perché i Patriarchi verdi, oltre a essere di una bellezza più unica che rara, sono già lì quando nasci, sono lì quando sei bambino e tuo nonno ti parla di loro, saranno lì quando da anziano racconterai di loro ai tuoi nipoti, saranno lì quando morirai. E questa catena procede quasi all’infinito facendo perdere le tracce dell’età di quegli alberi e facendoli sentire, rispetto a noi, immortali. Sarà un caso se non si scrutano all’orizzonte alti prelati impegnati all’altare nel profondere considerazioni sugli alberi e sul loro senso, sul degrado ambientale, sull’inquinamento, sull’ecomafia, se non con atti decisamente ipocriti?

Abbattere alberi secolari, alberi di cento anni che hanno nel legno cento inverni e cento estati, significa uccidere una componente intima di una comunità intera. Significa rendere tutti più deboli e limitati. Significa negare alle generazioni future quello che le generazioni precedenti avevano gelosamente custodito prima di consegnarlo a noi. Un qualcosa che non abbiamo saputo difendere allo stesso modo. Una maestosità che nel parco verde di San Rocco da oggi possiamo solo immaginare.


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