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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Nella Pentecoste di due anni fa bbiamo dedicato questa rubrica all’analisi del rito serrese di guarigione degli spirdàti che il grande etnologo Ernesto De Martino pubblicò nel 1960 sull’Espresso Mese con il titolo Purificazione di giugno. Nel piccolo Gange di Serra San Bruno, misurandosi, nel medesimo torno di tempo in cui stava studiando il fenomeno del tarantismo salentino, con l’esame di un rituale esorcistico che risaliva agli inizi del XVI secolo (qui l’articolo). Non era stato, tuttavia, De Martino a segnalare e analizzare per primo il rito di possessione diabolica e successiva purificazione mediante l’esorcismo liberatore che si svolgeva a Serra nello scenario di Santa Maria del Bosco, poiché una lunga tradizione agiografica (e non solo) aveva attestato la sua presenza, come si rileva anche negli anni terminali del XIX secolo in tre pubblicazioni nelle quali è possibile individuare gli elementi tipologici che lo costituiscono.
1885: “Le grida degli indemoniati si prolungano per la via”
Una prima, efficace, descrizione della festa di Pentecoste a Serra era stata fornita da Mons. Domenico Taccone Gallucci (Mileto, 1852 – Roma, 1917) nelle Memorie storiche della Certosa de’ Santi Stefano e Brunone in Calabria, pubblicate a Napoli nel 1885, che non aveva mancato, ovviamente, di soffermarsi sul rapporto che legava i serresi a San Bruno:
“A tale festività adunque interveniano nei passati tempi tutt’i Cleri e le Confraternite dei cinque paesi soggetti al dominio priorale in gran pompa, e col seguito d’innumerevole popolazione convenuta dai più remoti confini della Calabria, chi cioè per divozione, chi per ottenervi guarigione, e chi per procurarla da altri colà recatasi a gran fatica. Il lunedì di Pentecoste la Chiesetta di San Stefano è parata a festa, e dal giorno antecedente la statua è esposta su d’un trono a lato sinistro dell’altare. Arrivato il Clero dopo finite le Messe private, si comincia Terza, poi siegue Messa solenne cantata dal P. Priore e accompagnata dal Coro; dopo di che il medesimo Priore si sveste; e colla semplice cocolla monastica e stola assume la reliquia di S. Stefano (il dito chiuso in reliquiario), mentre i confratelli si adoprano a montare la statua sul piedistallo e fissarla [...]. La statua è ricevuta all’uscire della Certosa dall’immensa folla con grida di gioia entusiasta; i confetti che si gettano (così l’uso, come altrove i fiori), le mani che si estendono ad essa e poi si baciano in segno di riverenza, le preghiere degli infermi ed anche le imprecazioni e le grida degli indemoniati che sentono la virtù del Santo, si prolungano per la via. Arrivati al lago, nel giorno avanti colmato dell’acqua del ruscello, la Statua si volge verso di esso e si ferma. Il P. Priore colla Reliquia di S. Stefano benedice il lago. È desso il momento solenne: tutte le prode che l’avvicinano son gremite di popolo; ma le sponde stesse del lago son lasciate libere agl’infermi come la Probatica Piscina, e tutti allora vi si gettano dentro e vi lavano chi gli occhi, chi le gambe, chi le mani inferme; e poi un echeggiare inenarrabile al vedere i zoppi rizzarsi vispi e ridenti, i ciechi vedere, i muti parlare, ché qualche volta tutti questi prodigi concorrono in uno stesso giorno. Quando vengono liberati gli ossessi, vanno a toccare l’aureola di ferro della statua che sta nel lago, per accertarsi della grazia ricevuta, non potendo ancora possessi approssimarvi la mano. Se talora alcuni resistono, si adoperano gli esorcismi. Non si è mai udito dire, per quanto ci vien riferito da persone degnissime di fede, che qualche indemoniato se ne sia tornato qual vi era venuto. Si entra in seguito nella Cappella della grotta, facendo fare alla Statua il giro dei luoghi santificati dal santo: poi si entra in S. Maria, vi si depone la statua, e tutto il giorno e la notte seguente la Chiesa è frequentata da turba divota. I Religiosi ritornano alle case loro, e il popolo si mette a banchettare al rezzo degli abeti sotto l’occhio del Padre suo. Il martedì i religiosi privatamente col clero ritornano a S. Maria, e vi si canta la Santa Messa solennemente come il giorno prima si canto a S. Stefano. Dopo la Messa e benedizione del SS. Sacramento, si incammina di nuovo la Processione nello stesso ordine di prima. Gli energumeni liberati prendono posto con altri infermi sotto la statua come il liberato di Gerasa si teneva seduto vestito e tranquillo ai piedi di Gesù Cristo, e tutta la solennità finisce circa le due pomeridiane. La statua rimane esposta tutta l’Ottava, e il popolo (eccetto le donne) continua a visitarla”.
E mette conto sottolineare che, nella descrizione di Taccone Gallucci, più che la fenomenologia del rito di guarigione a essere riportati sono i suoi elementi di contesto: la processione dalla Certosa verso Santa Maria, il lancio dei confetti sul busto reliquiario di San Bruno, il laghetto di Santa Maria presentato come la “piscina probatica” del Vangelo di Giovanni, la guarigione degli infermi (tra i quali, ovviamente, gli indemoniati, gli “energumeni” liberati dalla possessione grazie all’intervento taumaturgico del santo), il banchetto al “rezzo degli abeti”. Mentre il “testo”, per così dire, ossia la presentazione analitica del rito di guarigione degli spirdàti, rimane quasi sottaciuto, come sullo sfondo.
1891: la “misteriosa sventura” degli ossessi e l’acqua liberatrice
Elementi più dettagliati del rito di guarigione è possibile, però, desumerli da un articolo, pubblicato a firma di Vincenzo Agostino su “La Calabria. Rivista di letteratura popolare” (numero del 15 dicembre 1891), intitolato Usi e costumi di Serra S. Bruno. Miracolo di S. Brunone agli ossessi nel lago di Santa Maria:
“Qui da noi - come in tutto il calabro paese - è comune la credenza che chi, senza avere addosso qualche amuleto, o senza farsi il segno della croce, si ferma per riposarsi, od anche vi posa solamente il piede, in un luogo dove qualche disgraziato venne ucciso, o vi cadde altrimenti morto di morte violenta, viene invaso dagli spiriti maligni. Questi stanno lì, nel luogo contaminato di sangue, quasi in agguato, per sorprendere gli incauti e dominare e straziare le loro persone nel modo più orribile e strano, finché non venga in loro aiuto qualche potenza soprannaturale. I provati da questa misteriosa sventura sono gli OSSESSI, che parenti ed amici menano devotamente al nostro Santo Patrono il giorno della sua festa, che ricorre il Lunedì di Pentecoste, come ad ultima tavola di sicurezza, quando gli spiriti che li tormentano si son mostrati ribelli a qualsiasi altro comando. All’intimazione fatta in nome del Santo, all’efficacia delle acque benedette del laghetto di Santa Maria, nelle quali EGLI un tempo straziò le sue carni, nessuna potenza demoniaca può resistere. [...] Il Lunedì di Pentecoste, verso mezzogiorno, gl’indemoniati - tra una folla immensa di curiosi e di devoti - attendono l’uscita dell’immagine del Santo, contenente le sue più preziose reliquie, alla porta della Certosa. Quando esce tra il fumo odoroso degl’incensi, il salmodiare grave e solenne e lo splendore di ceri e di ricchi paludamenti, tutti in processione si avviano a Santa Maria del Bosco [...]. Ivi la processione si ferma e gl’indemoniati, che lungo tutto il tragitto sono stati disposti alla pietà ed alla preghiera, son tratti avanti ed in presenza dell’immagine del Santo - mentre il Certosino recita i suoi esorcismi - vengon tuffati e tenuti nell’acqua agghiacciata del lago benedetto. La scena [...] nel suo insieme è solenne. Il Santo in alto, presso il lago, in aria di mistico comando; quella immensa folla genuflessa e pregante; quel non so che di misterioso, che viene dai recessi dell’imminente bosco; tutta la campagna letificata dai raggi del bel sole di maggio [...]. Gli occhi degli astanti son fissi lì, dove il miracolo dee compiersi e gli spiriti mali - obbedendo al comando ineluttabile del Santo, debbono lasciare la loro preda. Il più gran silenzio vi regna e non si ode - oltre allo stormire dei rami degli abeti - se non la voce monotona e cadenzata dell’esorcizzatore ed il dimenarsi furioso degli ossessi. L’operazione è lunga e faticosa, e più di una volta - prima che essa si compia - il fremito potente della folla si fa sentire; e a seconda che gli ossessi portati dal loro furore, dicono e fanno, urli di compassione, di minaccia ed anche di scherno echeggiano per tutta la contrada [...]. Certe volte, però, il battagliare è lungo e difficile, e la persona che esorcizza dee sapere bene il fatto suo ed essere d’una vita intemerata; se no quegli spiritacci lì - prima di sloggiare - sarebbero capaci di farne delle belle. Bisogna fare in modo che essi vadano via chetamente, senza offendere le creature che ne sono invasate: se non si sta più che attenti ad esorcizzarli a modo e verso, essi, i tristi, quando si veggon costretti ad uscire dalle persone delle loro vittime, potrebbero portar via ai disgraziati un occhio, un orecchio, una gamba... e lasciarli mutilati per sempre. Non potendo altro, vinti dal dispetto, fanno noto il loro scomparire col far saltare in aria, dal corpo degli ossessi, una scarpa, una calza od altra cosa simile. La rabbia li rende anche linguacciuti o mordaci, e se l’esorcizzatore in vita sua non ha sempre rigato dritto, avrà a passare di brutti quarti di ora. Gli spiriti - parlando per bocca degl’indemoniati - gli snocciolano lì sul muso, coram populo, vita e miracoli, senza una discrezione al mondo. [...] Andati via gli spiriti e gl’indemoniati - tornati uomini e padroni di sé stessi - restano un po’ come trasognati. Poi piangendo si gittano ai piedi del Santo e pregano e lo ringraziano del gran miracolo, e tutti piangono e pregano devotamente con essi. Ognuno ritorna a casa, esaltato nel concetto del potere immenso del Patrono di Serra S. Bruno sui demonii crudeli”.
Qui alcuni dei caratteri specifici del rituale e anche della mentalità collettiva che era sottesa al rito vengono precisati in maniera non equivoca, a partire dal fatto che la possessione in questione nella Pentecoste serrese era quella da “spiriti” e non da demoni, come attestava la “credenza”, richiamata da Agostino all’inizio, secondo la quale a essere invasi dagli spiriti maligni erano coloro che, non avendo messo in atto pratiche simboliche di difesa, si fossero trovati in un luogo in cui qualcuno era morto di morte violenta. Altrettanto ben definiti altri elementi tipologici: il ruolo determinante dell’acqua del laghetto di Santa Maria resa “benedetta” dalle estenuanti penitenze di San Bruno, il problema della “via d’uscita” dello spirito dal corpo dell’ossesso che avrebbe potuto “offendere” la vittima della possessione danneggiando qualche suo organo, il “volo” di parti del vestiario (Agostino cita le calze e le scarpe) nel momento in cui l’esorcismo liberatore si realizza, le “ritorsioni” dello spirito nei confronti dell’esorcista qualora questi non avesse avuto una vita intemerata, la funzione di incitamento della folla dei pellegrini e degli “spettatori”. A margine dei temi principali dell’articolo può essere anche il caso di richiamare per qualche momento un dato, di non univoca valutazione, in esso presente e relativo all’uscita del busto reliquiario di San Bruno “verso mezzogiorno”, che potrebbe anche considerarsi come una infiltrazione “dotta” desunta dal collegamento, tipico in molte culture antiche, tra il mezzogiorno, ora dei morti, e i demoni. Tale dato risulta, peraltro, rintracciabile pure nel folklore, come ha ricordato Gian Luigi Beccaria nell’importante volume I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, (Einaudi, 1995), richiamando il caso della Basilicata “dove si temeva di essere rapiti nelle prime ore pomeridiane d’estate, l’ora degli spiriti, perché si può levare un turbine, u scazzariello, che porta il rapito a convegno col diavolo e lo lascia poi debilitato, come in un delirio”. E, naturalmente, ci sarebbe da dire anche dell’archetipo pagano del diavolo, Pan, tipico demone del meriggio, non a caso pure esso rappresentato con zampe pelose, orecchie a punta, piedi caprini, ma queste associazioni ci condurrebbero lontano.
1898: un rimedio contro le “vessazioni del demonio”
Il terzo testo di cui diremo chiude, in un certo senso, almeno dal punto di vista editoriale, quel lungo Ottocento durante il quale tante e molto travagliate furono le vicende che riguardarono la Certosa serrese, ma in cui si assistette anche a una significativa diffusione del culto bruniano. Nel 1898 vedeva la luce presso la stamperia Notre-Dame des Prés a Montreuil-sur-Mer un’anonima Vie de Saint Bruno, fondateur de l’Ordre des Chartreux, dovuta, in realtà, a dom Eucher Custer, un religioso della Grande Chartreuse. Il discredito che ha accompagnato l’agiografia brunoniana non ha risparmiato neppure questa Vita di dom Custer, giudicata “carente di acume critico” da James Hogg e, tuttavia, tale mancanza di acume critico ha forse consentito a dom Custer una disponibilità ad accogliere alcuni caratteri ottocenteschi del culto di San Bruno, diventando veicolo della loro trasmissione. Che, poi, sulla diffusione di questi caratteri ci fosse l’imprimatur della Casa generale certosina di Grenoble è un dato che conferma come anche l’ordine di San Bruno abbia contribuito all’elaborazione e al mantenimento di una immagine “popolare” e taumaturgica del proprio iniziatore. C’è da segnalare che all’accuratezza della descrizione delle modalità calabresi del culto di San Bruno diede un determinante contributo la Certosa serrese di S. Stefano del Bosco, che con dom Custer si mantenne in contatto inviandogli, tra l’altro, come documentazione, i manoscritti di dom Urbano Florenza, fra Arsenio Compain e dom Costanzo De Rigetis. Un evidente risultato di tale collaborazione è la descrizione che dom Custer fa della processione di Pentecoste: i membri delle confraternite laicali serresi, vestiti di bianco con mantelline nere o azzurre, portano il busto di San Bruno e seguono i padri e i fratelli certosini, che camminano stringendo dei ceri accesi. Dietro di loro, il priore del monastero, che indossa un piviale rosso e tiene in mano il piccolo reliquiario con il dito di S. Stefano, uno dei tesori più preziosi della Certosa calabrese. Il corteo arriva, finalmente, al lago di San Bruno a Santa Maria e dom Custer, a questo punto, non può fare a meno di notare che “l’acqua di questo piccolo lago è da sempre considerata come un rimedio efficace contro diverse malattie, soprattutto contro le vessazioni del demonio”. Si continua verso la chiesa e la piccola cappella del “dormitorio” di San Bruno, che stanno l’una di fronte all’altra: qui, prima di entrare per la messa, i fedeli prendono un poco di polvere, ai piedi della statua del santo, e la portano alle labbra. Terminata la celebrazione della messa solenne, le reliquie contenute nel busto argenteo di San Bruno rimangono esposte per tutta la notte alla venerazione dei pellegrini, finché il giorno successivo, martedì di Pentecoste, vengono riportate processionalmente dentro la Certosa, sotto una pioggia di confetti che la popolazione lancia, “al posto dei fiori”, all’indirizzo del simulacro del santo. Colpisce, soprattutto, dom Custer (si ricordi non un osservatore diretto dell’evento che sta descrivendo, ma uno spettatore per interposte persone) l’ardore esuberante con cui i fedeli si “disputano l’onore” di portare il busto di San Bruno, si precipitano per raccogliere da terra i confetti scagliati contro il santo, si affannano tumultuosamente per ottenere delle medagliette con l’effigie del patriarca certosino. Così, dopo essere stato cronista scrupoloso e partecipe della Pentecoste serrese, dom Eucher Custer non può risparmiarsi una notazione “antropologica” nella quale emerge la distanza dello sguardo “colto” dai suoi oggetti di osservazione: “Non sarà ragionevole chiedere a queste popolazioni così impressionabili la calma e la serietà che si trova in altre regioni”. E il particolare della polvere, che i fedeli prendono prima di entrare in chiesa e portano alle labbra, collega questa pagina ottocentesca alla prima descrizione del rito di guarigione degli spirdàti nel 1522, contenuta in una cronaca anonima riportata da Tromby, quando Garetto Scopacasa di Simbario, con la moglie Isabella, condusse la sua unica figlia, “posseduta da uno spirito immondo”, alla porta del monastero affinché le reliquie di S. Stefano e di altri santi mettessero in fuga il maligno che si era impossessato di lei. Però, non essendosi verificato il prodigio, il vicario certosino dell’epoca, P. de Corduba, aveva suggerito ai genitori della ragazza di portarla alla grotta di San Bruno, lontana un miglio dal monastero. E qui il miracolo era avvenuto: il piccolo gruppo faceva tre giri pregando, “con le ginocchia piegate”, intorno alla cappella, l’indemoniata baciava i piedi dell’immagine del santo, inghiottiva “un po’ di polvere” e lo spirito immondo, dopo aver attraversato il suo corpo e provocato una piaga sanguinante alla sommità di un dito, veniva espulso. Quasi quattro secoli erano trascorsi dalla guarigione della figlia di Garetto Scopacasa quando dom Eucher Custer scriveva e ancora, argomentando sulla presenza brunoniana in Calabria, non si poteva fare a meno di segnalare la vitalità di quel rito taumaturgico che avrebbe contrassegnato agiograficamente San Bruno come il guaritore degli spirdàti.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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