Domenica, 18 Settembre 2022 09:42

La "restanza", un esorcismo al “non luogo” per ricostruire le comunità

Scritto da Bruno Greco
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Vito Teti Vito Teti

Sembra quasi che Vito Teti voglia indossare le vesti dell’antropologo-esorcista per scongiurare l’andarsene dai luoghi. Chi si è occupato molto spesso di abbandono, descrivendone fenomeni e cause, vive come una missione anche l’arresto di quest’assurda emorragia di esistenze. “La restanza” (Einaudi, 2022) è proprio quell’esorcismo che l’antropologo vorrebbe applicare al “non luogo” descritto ne “Il senso dei luoghi”, un lavoro che completa quello precedente e in un certo senso alimenta la speranza che quanto è stato non sia più. La nostra storia, i nostri luoghi, la storia del professor Teti che potrebbe essere accomunata a quella dei nostri padri. “La restanza” è un libro che fa riflettere molto e ancora una volta mette alla luce tutte le nostre contraddizioni.

Condivisione, accoglienza, coerenza

Il tema della restanza (che differisce dal restare) è un concetto che per attecchire necessita di complementarità. Teti spiega che non ci può essere restanza senza condivisione, che restanza e consumismo sfrenato non vanno d’accordo, che la "transizione ecologica" è un qualcosa a cui avremmo dovuto pensare molto tempo fa, che il "modello Lucano" è prezioso. Perché (al di là delle acrobazie che bisogna fare nei meandri della burocrazia) l’esempio dell’ex sindaco di Riace può definirsi una buona pratica della restanza? Teti cita, in proposito, Roberto Saviano: «L’immigrazione per un paese demograficamente morto come l’Italia è una benedizione e una necessità». E poi Tullio De Mauro che definiva l’Italia come “La terra dei paesi…”. Siamo da sempre abituati ad accogliere, crocevia di culture, ma la retorica del “prima gli italiani” nel recente passato ha funzionato come metodo di persuasione elettorale. Nella politica di ogni schieramento tutto è strumentale al raggiungimento di un pezzo di potere, ogni cosa detta o fatta smentisce totalmente la coscienza di chi quelle cose dice e fa solo per tentare l’assalto al fortino elettorale in base al trend del momento. Per questo l’esempio di Lucano oltre ad essere visto come buona pratica della restanza rimarca anche una linea di coerenza politica oggi pressoché assente nella politica nazionale e locale.

Si può restare senza essere mai partiti?

La restanza non è peculiarità di chi resta ma anche di chi è partito e in un certo senso si sente ancorato al luogo di origine. Per restare non basta un certificato di residenza ma bisogna essere partecipi alla vita sociale di quel posto, tornandoci, sentendosi spaesato da emigrato, creando un secondo paese altrove, magari Oltreoceano, come spesso ha fatto chi è stato costretto a partire. Un interrogativo appare subito chiaro: si può restare senza essere mai partiti? Nel libro si insiste molto sul concetto di conoscenza. Quella conoscenza che si acquisisce pure viaggiando. Solo così si può uscire dall’immobilismo, creare nuovi progetti… paradossalmente anche il semplice copiare, “rubare” le esperienze positive degli altri, potrebbe essere un ottimo espediente, soprattutto per la politica.

La diatriba paese-borgo

L’“Io resto a casa” della pandemia ci ha re-insegnato il valore della restanza. Ma come è possibile che per comprendere a pieno l’importanza del restare ci sia voluto un fenomeno così destabilizzante? La famiglia, la micro-comunità del quartiere, sono elementi che dalla dimensione particolare riportano a quella universale di paese, l’oggetto principe che bisogna salvare, non solo dall’emorragia delle partenze ma anche dalla retorica spicciola. Teti non manca, infatti, di farsi critico anche sul dualismo paese-borgo, riflette su un’accezione strumentale e vuota sfruttata in termini turistici e che per niente giova ai territori. La retorica dei borghi sminuisce, per certi versi annienta, lo stesso concetto di paese. La restanza si alimenta nel paese, non con il paese-cartolina.

La sacralità dei luoghi

La restanza è legata anche alla sacralità di un luogo. Tanti paesi, chiese, sono nati o comunque strettamente legati all’apparizione di un’opera achiropita. Lasciare quel posto è difficile perché significa dover lasciare, in un certo senso, un luogo eletto. Il concetto di sacralità e condivisione è espresso in maniera chiara. Il mondo che cede al consumismo, allo spreco, manca di etica e cancella quei legami. Nella società sempre più individualistica e dedita al consumo la restanza non attecchisce, così decade anche l’antico paese. Forse per questo oggi è sempre più difficile far rinascere i “non luoghi”. Riabitare significa ricostruire comunità, creare la condizione per chi resta, per chi torna e per chi arriva.

Antropologia dissidente

“La restanza” è infine anche un libro di storia, a volte autobiografico. Nel capitolo intitolato “La casa ovunque” si intravedono anche i tratti del romanzo. È naturalmente un saggio di antropologia, ma anche molto altro. Una delle cose che colpisce di più, nei capitoli finali, è che Teti sembra chiamare a raccolta gli antropologi dicendo loro che è arrivato il momento per tutti di occuparsi del presente e non più del passato, che è arrivato il momento per l’antropologia di essere dissidente anche nei confronti della politica (e non solo). Questo è un punto cruciale: l’antropologia deve insegnare, consigliare, fare da guida… se oggi sente il bisogno di essere dissidente vuol dire che la misura è veramente colma.

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