Stampa questa pagina
Domenica, 27 Febbraio 2022 07:47

La rivolta del pane a Serra. La guerra, la fame e la lista nera

Scritto da Sergio Pelaia
Letto 4111 volte
Illustrazione di Francesco Gonin per "I Promessi Sposi", edizione 1840 Illustrazione di Francesco Gonin per "I Promessi Sposi", edizione 1840

Serra San Bruno, 30 gennaio 1944. Sono passate poche settimane dall’armistizio. La colonna tedesca, in ritirata dopo lo sbarco degli angloamericani in Sicilia, è passata anche dai paesi dell’entroterra calabrese. I cingolati hanno fatto sentire il loro lugubre crepitio sul granito di corso Umberto in una notte di settembre. Poi sono arrivati gli «alleati» e hanno cominciato a circolare i primi generi alimentari portati dai militari. Ma tutto è razionato. Ed è rimasta, uguale a prima, la fame.

La scintilla

Quella mattina di gennaio nella popolazione accade qualcosa. Non si sa da dove origini ma nelle vie di Serra scocca una scintilla che si trasforma ben presto in una scena di manzoniana memoria. Qui non c’è il «forno delle grucce» de “I promessi sposi” ma «l’ammasso», un magazzino all’ingresso del paese, attiguo a un vecchio mulino, in cui si fa il pane e viene custodita la farina che dovrebbe bastare per un mese alla gente che vive tra San Rocco e Santa Maria.

Donne col bastone

Un’onda di ribellione si innalza nel rione Spinetto e poi travolge anche Terravecchia. È lì, all’ammasso, che sono dirette centinaia di persone imbufalite: avanti le donne, che sono la maggior parte, dietro un drappello di uomini, in mezzo anche i bambini. Gridano: «Pane, pane!». Più vanno avanti e più gente si aggrega. Molte madri di famiglia agitano i bastoni. Tutti sanno che qualcuno può permettersi di mangiare pane caldo e in quantità anche in quei giorni. Tutti sanno che da lì partono carri pieni di filoni destinati a bocche nobili e non al popolo serrese.

La bomba

Quella mattina, allora, decidono che ne hanno abbastanza. Vanno a prendersi ciò di cui hanno bisogno. I carabinieri intimano loro di fermarsi. Non ci pensano neanche. Un tenente spara un colpo di pistola in aria per tentare di dissuaderli e qualcuno, tra i rivoltosi, risponde gridando: «N’arangu!». Poco dopo si sente un forte scoppio, seguito da urla di terrore. Qualcuno ha lanciato un ordigno dalla forma di agrume, una bomba a mano, le cui schegge hanno provocato dei feriti. Per fortuna nessun morto. La porta del magazzino viene comunque abbattuta e la gente comincia ad arraffare quello che può: pane, impasto, farina.

La repressione

Il frutto della rivolta finisce per alleviare molte pance vuote. Nelle ore successive però per quei pochi carabinieri arrivano rinforzi da Vibo e decine di persone vengono prelevate e portate in caserma. Seguono giorni di perquisizioni e arresti: i carabinieri entrano nelle case e dove trovano pane fanno tintinnare le manette. L’autorità, che sia emanazione del potere fascista da poco destituito o di quello degli angloamericani «liberatori», non conosce compassione.

La testimonianza

L’episodio dell’assalto al panificio è noto, i più anziani lo ricordano ancora e lo narra Sharo Gambino in un breve capitolo di “Sull’Ancinale” intitolato, appunto, «Un’arancia». Tra i documenti recuperati e custoditi nell’archivio comunale abbiamo però scoperto qualcosa in più. E abbiamo incrociato le informazioni con la testimonianza di una 90enne che all’epoca aveva 12 anni e ha assistito, da molto vicino, a quei fatti.

Pane e segatura

Possiamo così raccontare il prima, il contesto in cui maturò la rivolta, e anche ciò che successe dopo, un risvolto che conferma quanta poca umanità dominasse quei tempi. Prima dell’armistizio si stava così: «Ci cibavamo – scrive Gambino – di erbe, di fagioli appena conditi, di un pane immangiabile, confezionato, si diceva, anche con la segatura prodotta nelle segherie di Santa Maria, pieno di scaglie che lo trattenevano nella gola e non andava giù. Ma il mercato nero non trovava soluzione di continuità e chi aveva soldi ed amicizie mangiava pane fresco e croccante confezionato con autentica farina di autentico grano».

Anche le bestie fanno la fame

Alcuni documenti che abbiamo consultato lo confermano: a ottobre del 1943 il podestà di Serra fissava il prezzo del pane a 2,60 lire al kg e la razione giornaliera in 100 grammi a persona. Nei mesi precedenti era un grosso problema far arrivare in paese anche il sale: chi era solito trasportarlo con gli animali si rifiutava perché le bestie, rimaste senza foraggio da mangiare, non avevano le forze per affrontare il viaggio. Partivano dalle autorità serresi lettere allarmate alla volta della Direzione compartimentale dei Monopoli di Stato, che aveva sede a Cosenza. La situazione prima dell’assalto era insomma insostenibile.

La lista nera

Ma quello che successe dopo fu anche peggio. Non bastavano la fame, la paura, gli arresti dopo la rivolta. A un mese da quei fatti l’ordine costituito non aveva ancora saziato la sua fame di repressione. Erano già finite in carcere 35 persone, di cui 22 donne. Ma il commissario prefettizio in carica all’epoca, che aveva preso il posto del podestà, si accanì anche sulle loro famiglie diramando una circolare a tutti i commercianti. Il documento, che abbiamo ritrovato nell’archivio, è datato 26 febbraio 1944. Benché sia redatto in gergo burocratico, la sostanza del provvedimento è di un cinismo sconvolgente. Vi è riportato un elenco con i nomi degli arrestati e si diffidano tutti i negozianti serresi «a non consegnare il pane alle famiglie dei sottoelencati detenuti se non prima saranno muniti di regolare nulla osta rilasciato da parte di questo ufficio». A carico dei commercianti inadempienti sarebbero stati adottati «severissimi provvedimenti».

Farina d’orzo

Non solo i protagonisti della rivolta dovevano pagare la fame con il carcere, ma le loro famiglie venivano sottoposte a una sorta di infamante black list per cui non potevano nemmeno comprare il pane senza il beneplacito del Comune. La testimone con cui abbiamo parlato ha riconosciuto nell’elenco i nomi di molte delle persone che ha visto con i suoi occhi partecipare alla rivolta. Lei stessa era presente e anche sua madre, ci racconta, aveva acciuffato un sacco di farina riuscendo poi a nasconderlo in casa nonostante i controlli dei carabinieri. Ma, ricorda oggi la donna con un sorriso amaro, quella farina «era d’orzo e non ne potemmo fare neanche un buon pane». Più in là venne fuori che un paio di serresi si erano preoccupati di segnalare ai carabinieri i nomi di chi aveva assaltato il panificio. Dettagli poco edificanti di uno scenario postbellico. Che testimonia chi sia, allora come oggi, a patire le pene peggiori di qualsiasi guerra.

La parte iniziale del documento che contiene la "lista nera" dei detenuti e il divieto rivolto ai commercianti. Sotto, l'edificio all'ingresso di Serra che fu assaltato nel gennaio del 1944.