Il Vizzarro.it - quotidiano online
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Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
Spesso come dei compagni di strada possono considerarsi gli scrittori e gli intellettuali che Sharo Gambino ha avuto modo di incontrare lungo l’arco della sua esistenza e chi volesse di quell’esistenza scrivere la storia certamente non potrebbe esimersi dal ricostruire, dentro quella storia, la rete di rapporti, anche amicali, che Gambino si trovò a intessere, con la generosità e con l’affetto di cui era capace. Talmente significativi e densi tali rapporti che di qualcuno di essi rimangono curiose tracce, che dicono qualcosa, nel medesimo tempo, sia della personalità di Gambino sia di quella del suo interlocutore. Così è nel caso di due testi di Enotrio che testimoniano l’intensità del loro rapporto personale, com’è evidente nella dedica affettuosa a Gambino di una bella prova d’artista (“A Sharu Gambinu / dispettusu e tostu / comu na crapa” e aggiungerei che Gambino, che “dispettusu” non era, ogni tanto, divertito, si interrogava sul perché di quell’appellativo) e da un breve componimento poetico autografo del 1977 in cui il pittore, rivolgendosi allo scrittore, dice di sé e del suo sentimento di nostalgica lontananza che lo conduce all’uso del dialetto:
Caru Sharu, ca ti lu dicu a tia
Di quandu mi ndi jivi i stu paisi
Nommu m’astutu chjanu i cardacía
Mi nzonnu, penzu e ciangiu n’calabrisi
Non meno interessanti le note che si possono trarre da alcuni brevi scritti di Gambino dedicati ad amici scrittori, riuniti, insieme con numerosi altri testi d’occasione, in Accadde in Calabria (Mapograf, 1989), dove è possibile leggere anche lo spassoso resoconto di un incontro con Armando Verdiglione nella sua natia Caulonia, nel segno dell’incomprensione, persino linguistica, di Gambino per il “secondo Rinascimento” propugnato dallo psicoanalista e per il suo ermetico linguaggio che lo costringe “a sbattere la testa contro il muro di parole”.
Due incontri con Repaci
Con l’incontro con Leonida Repaci, fondatore del Premio Viareggio e autore tra l’altro del ciclo dei Rupe, nel quale si era imbattuto per caso in un ristorante a Pizzo, comincia la serie dei “ricordi” che Gambino dedica agli scrittori e che inserisce nelle pagine di Accadde in Calabria: “La prima, anzi la primissima cosa che i miei occhi incontrarono appena dentro il locale fu una testa, un volto dai lineamenti marcati, tagliati e aureolati da una chioma bianchissima. Lui, Leonida Repaci”. L’incontro avvenne nel settembre 1963, quando Repaci (Palmi, 1898 – Marina di Pietrasanta, 1985) era uno scrittore nel pieno della maturità e una personalità ben nota della vita culturale italiana, mentre Gambino, come egli stesso scrive, si trovava ancora negli “enta”, non aveva oltrepassato la linea d’ombra che immette nei quarant’anni e quindi, quindi seguiamo il suo racconto dell’incontro: “Un Viareggio, mi dette, Repaci, quella sera, quando disse: «Oh, Sharo Gambino! Come stai, caro? A Serra S. Bruno si sta bene, eh?, di questi tempi!». Poi, ciascuno al proprio tavolo finché giunse un cameriere e domandò di Gambino: “«Quel signore vi manda questo». E l’uomo in bianco depose in mezzo al tavolo una torta ed una bottiglia di champagne. Mi girai a guardare Repaci. Sorridendo mi disse: «Divertitevi e brindate alla mia salute». Ringraziammo battendo le mani. Egli si alzò e venne da noi, dando l’impressione che avrebbe assai volentieri cambiato compagnia, lui che ebbe sempre il pallino della donna e in una autocaricatura una se ne disegnò a mo’ di chiodo conficcato nel cervello”. Alla fine, prima di andare via, venne il momento degli autografi di Repaci su un taccuino: “«A Sharo Gambino, con la speranza di ritrovarlo presto. Il suo Leonida Repaci». Più o meno la stessa dedica che avrebbe vergato sotto una gran foto quando, cinque anni dopo, a Palmi, ci saremmo incontrati in occasione del suo settantesimo compleanno. Non aveva dimenticato quella serata a Pizzo. Mi disse: «Di’ la verità! Quel bacio alla tua ragazza t’è rimasto qua!». E con l’indice si puntò la gola. Era soddisfatto, come se mi avesse fatto le corna!”.
A Serra e altrove con Fortunato Seminara
Parte da un incontro un anno prima della morte dello scrittore di Maropati il ricordo di Fortunato Seminara (Maropati, 1903 – Grosseto, 1984), incontrato a Vibo Valentia in occasione del Premio Sila: “Mi disse che stava lavorando attorno ad un romanzo in chiave polemica con la situazione economica e sociale calabrese e devo dire che per tutto questo tempo ho atteso ansiosamente di sapere se lo aveva portato a fine e quando lo avrebbe pubblicato perché avevo grande ammirazione per Seminara quando cacciava fuori le unghie”. Unghie che, evidentemente, Seminara sguainava non rarissimamente, se Gambino proseguiva ricordando l’aspra polemica con la RAI che aveva realizzato su di lui un servizio poi non mandato in onda e la polemica con Giuseppe Berto (che sul Corriere della Sera “aveva preso anche per sé il merito di aver inventato il neo realismo letterario”) e quella con Saverio Strati, “al quale Seminara rimproverava di parlare di realtà calabrese vivendone lontano”. Ma era ancora su incontri con lo scrittore e amico che subito dopo si soffermava, come della volta che avevano rischiato di farsi rubare il manoscritto di un romanzo di Seminara dimenticato sul sedile della macchina lasciata con i finestrini aperti o della volta in cui, giunto Seminara a Serra e risultando impossibile per via del periodo pre-pasquale la visita della Certosa, “bussò e al monaco venuto ad aprire tanto disse e tanto non disse, che quel giorno ci fu uno strappo alla rigidità della regola”. Per chiudere con un giudizio su Seminara che contiene anche un auspicio: “Io non credo che la Calabria possa dimenticare Fortunato Seminara, forse, dopo Corrado Alvaro e insieme a Mario La Cava, il più grande interprete della sua realtà. Sono convinto, invece, che la sua opera continuerà ad essere stimolo e documento essenziale per chi alla Calabria vorrà dedicare la sua fatica per guidarla verso quella rinascita che era nella mente e nel cuore dell’autore de Il vento nell’uliveto”.
Tra La Cava e De Angelis (e, in regalo, un disegno di quest’ultimo)
Inizia con Mario La Cava, incontrato durante un convegno tra Tropea e Capo Vaticano (“Amo Mario La Cava, la sua semplicità, la sua disponibilità all’amicizia, così come amo tutto quel che lui scrive. Sto bene in sua compagnia, le rare volte che le circostanze ci fanno incontrare”), ma è dedicato a Raoul Maria De Angelis (Terranova di Sibari, 1908 – Roma, 1990) il ricordo di quella giornata nella Costa degli Dei in cui Gambino è trasportato con la memoria ancora più indietro, nel 1954, quando, giovane istitutore nel Collegio italo-albanese di San Demetrio Corone, ebbe modo di conoscere tra i convittori Ernesto De Angelis che gli parlò di uno “zio Peppino”, scrittore, che altri non era che Raoul e al quale Ernesto scrisse, senza ottenere risposta, per chiedergli una presentazione al racconto di Gambino Un uomo ha perduto l’ombra: “Trent’anni dopo. Dico: tre decenni e qualcosa. Sulla terrazza del Club Aldiana io e R. M. De Angelis siamo di fronte ed appena ho declinato il mio nome e cognome, egli, senza un attimo di riflessione, come fosse fatto di ieri, mi chiese sorprendendomi: «Ma io risposi a quella lettera?». Oh, Cristo! E chi se ne ricordava più? Dico, emozionato […]: «No, non rispose!». […] «Mio nipote Ernesto avrà mancato di informarla! ... Ora deve scrivermi, mi scriva tutte le volte che vuole, io le risponderò sempre!». Adesso mi pare di poter volere qualcosa di lui e di poterla avere. «Mi regala il disegno che stava eseguendo in sala?». «Questo?». E me lo mostra. Lo trovo bellissimo. […] «Non posso, è della modella. Gliel’ho promesso. Sto andando in camera» (passa al tu affettuoso ed amicale) «e quando torno ti darò un mio ricordo!». De Angelis è di parola: “Ora nella mia collezione d’arte – aggiunge Sharo Gambino – figura un bel disegno a penna (un misterioso profilo di donna) a firma R. M. De Angelis, ma dentro di me c’è anche una punta di orgoglio, ché se l’autore di la Peste a Urana non ha mai dimenticato quel lontano ed insignificante episodio, è perché io glielo ho continuamente ricordato coi miei scritti, con la frequenza della mia firma su fogli che sono giunti sino a lui”.
Il male di vivere di Domenico Zappone
Domenico Zappone (Palmi, 1911 – Palmi, 1976) è, tra tutti gli scrittori che Gambino ebbe modo di incrociare, probabilmente la figura a cui si è sentito maggiormente legato, il suo “amico e maestro”, l’interlocutore di tante lettere, del quale Gambino curò anche una raccolta postuma (Il mio amico Hemingway e altri racconti, Frama Sud, 1984), colui che, dopo la morte, gli suscitò un rimpianto profondo che non smetteva di interrogarlo: “Forse se avesse atteso senza provocarlo l’arrivo della camusa armata di falce, il ricordo di Domenico Zappone sarebbe stato, in me, nei suoi familiari, in quanti gli vollero e gli vogliono bene, meno agitato di rimpianti e persino di scrupoli; ma lui ha avuto troppa fretta, ha voluto, servendosi di whisky e barbiturici trangugiati senza controllo, anticipare l’incontro senza lasciarci una spiegazione e questo, ancora a tanta distanza da quel 5 novembre 1976, pesa alla memoria e sulla coscienza perché forse quanti gli siamo stati vicino non abbiamo saputo interpretare i messaggi che egli ci trasmetteva”. Un tedium vitae, quello di Zappone, che Gambino assimilava alla “noia leopardiana, che gli ingombrava l’anima per lunghi periodi” e forse anche originato da un’esistenza che “vedeva ingiusta ricompensatrice di meriti, che lo voleva costretto a dare lezioni in una scuola media e lui, invece, sapeva di avere ali per lunghi voli”. E ora, quasi per ricostruire, in frammenti, quel male di vivere, ecco che Gambino proponeva ai suoi lettori, estratti della corrispondenza di Zappone con lui, schegge nelle carni che pungevano lo scrittore palmese. Da una lettera di Zappone a Gambino del 13 giugno 1966: “Vado accarezzando l’idea (bellissima) di piantare per sempre lo scrivere e di trascorrere in pace i miei pochi anni che mi avanzano, senza più fantasie né illusioni, dal momento che vado indietro come il cordaro o faccio come lo scarabeo stercorario […]”. E da un’altra di quattro giorni dopo: “Sono sfinito e scocciato come non mai – vedi anche se mi trovi qualche donna che mi levi l’occhio, mi sfumi (mi levi il fumo dell’altrui cattiveria), come qui si dice, perché non me ne va una sola diritta”. Mentre in un’altra lettera dell’anno prima, più lungamente riportata da Gambino, è di una rinuncia a un libro sulla Calabria “o sul Sud in generale” che Zappone gli parla: “[…] Non lo farò mai, prima di tutto perché vorrei (avrei voluto) scrivere un libro veramente nuovo e segreto sulla Calabria e poi perché mi scoraggia l’impresa, la fatica, la faticata, insomma, che potrebbe anch’essere inutile per mancanza di editore. Penso semmai a come trascorrere in pace questi residui annetti di vita che mi restano, magari vincendo al Toto o alla lotteria o in non so quale altra maniera, ma non lavorando, per carità! – Né scrivendo, né andando appresso alle cose da scrivere, i personaggi, le fantasie, le osservazioni, i fatti che ti balzano agli occhi, perentori, e vogliono essere raccontati e così via”. Nel caso di Zappone, come si vede, è una relazione intima che si rivela, fatta di confessioni intorno al proprio male di vivere dall’amico scrittore all’amico scrittore e di cui è traccia anche in una serie di fotografie sulle quali Gambino chiude l’articolo. Cominciava con uno scatto che fissava “una di quelle sue risate aperte, divertite, con le quali accompagnava il discorso su malefatte politiche o letterarie” quella serie di foto, ma si concludeva con un “sorriso-smorfia” che esprimeva “disgusto, amarezza ed infine una sorta di pensosità dolorosa”, con lo sguardo di Zappone indirizzato alla ricerca di “un angolo entro il quale trovare la quiete sempre cercata”.
*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole
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