Domenica, 16 Giugno 2024 07:51

Poesia di lavoro scandita dalle scalpellate. La «carica umana» di Mastro Bruno

Scritto da Il Vizzarro
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La famiglia Timpano (Fatunedha) nel quartiere Zzàccanu, in posa di fronte alla casa di Mastro Bruno, che si vede a destra sull'uscio della porta della sua casa (stampa fotografica del 1965 da un originale perduto, collezione privata, da "Bruno Pelaggi e il suo tempo" di D. Pisani) La famiglia Timpano (Fatunedha) nel quartiere Zzàccanu, in posa di fronte alla casa di Mastro Bruno, che si vede a destra sull'uscio della porta della sua casa (stampa fotografica del 1965 da un originale perduto, collezione privata, da "Bruno Pelaggi e il suo tempo" di D. Pisani)

Non un «semplice manovale», bensì un artigiano «di qualche nome anche di fuori di Serra» che «era chiamato a lavorare altrove». E che, nonostante una vita di stenti, manteneva «l’orgoglio della sua professione». Spesso citata, ma probabilmente non altrettanto letta, offre spunti non certo banali la “Nota su Mastru Brunu” scritta da Umberto Bosco ormai mezzo secolo fa. Contenuto in “Civiltà di Calabria – Studi in memoria di Filippo De Nobili” a cura di Augusto Placanica (Edizioni Effe Emme, Chiaravalle C.le, 1976), lo scritto vergato da colui che è stato tra i maggiori critici e storici della letteratura italiana del XX secolo – accademico, filologo, nonché redattore capo e poi direttore dell'Enciclopedia Italiana Treccani – in alcuni passaggi illumina un tratto della poesia di Bruno Pelaggi forse messo in secondo piano dall’enfasi posta su altre sue caratteristiche, quanto pretese o reali non si sa.

Dopo averla letta, essendo ora la pubblicazione tra quelle consultabili alla Biblioteca comunale “Enzo Vellone” grazie alla preziosa donazione libraria di monsignor Leonardo Calabretta, ci si rende conto di quanto forse quella di Mastro Bruno sia, ancor prima che di protesta o di satira, una poesia “di lavoro”, che probabilmente nacque nella sua mente creativa proprio durante il lavoro e che, in seguito, si è diffusa anche attraverso il lavoro. L’incertezza delle fonti manoscritte, dunque, in questo contesto la si può inquadrare quasi come inevitabile proprio perché la pagina è un supporto “estraneo” a questo tipo di poesia, il cui ritmo è scandito dalle scalpellate e i cui temi sono dettati dallo scorrere della vita del paese durante il lavoro. E magari nel riconoscere altrove situazioni simili, ai lavoratori serresi in trasferta tornavano in mente quelle rime e quei bozzetti di paese.

Bosco, nato a Catanzaro nel 1900 da una famiglia originaria di Mongiana, ricorda di quando da ragazzo nel capoluogo la figura di questo poeta «che si pretendeva analfabeta» aveva «i contorni incerti del mito». Si parlava con ammirazione della sua «arguzia, che era addotta a esempio della causticità comunemente attribuita ai compaesani del mastro, gli abitanti di Serra San Bruno». E si citava qualche sua battuta, ma «in sostanza la poesia di lui pochi la conoscevano direttamente». Le cose cambiarono tra il 1963 e il 1965 con una pubblicazione di Sharo Gambino e una raccolta più ampia di Angelo Pelaia, nipote di Mastro Bruno, che oltre alle notizie sulla sua vita fece conoscere anche una sua effigie, «un viso intelligente e scanzonato, giovane nella folta barba bianca», osserva Bosco.

Il filologo aggiunge: «È tutt’altro che sprovveduto dal punto di vista letterario. Nei componimenti di lui che ci son rimasti non è difficile trovar tracce sicure di una certa cultura, giunta non so per quali vie a questo certo non addottrinato scalpellino», che usa anche una metrica «assai scaltrita, direi ragionata». Mastro Bruno sapeva «metter su impeccabili ottave, intrichi complicati di rime, e perfino si fabbrica un metro» che Bosco definisce «personale».

Ovviamente Bosco richiama la «satira su fatti cittadini» e gli «aneddoti di piccola cronaca», ma si sofferma sui versi «in cui denuncia la necessità in cui i poveri si trovano di votare secondo la volontà di coloro ai quali “si dici no pierdi lu pani”», sulle liriche da cui trasuda una «cupa disperazione» che però «non è davvero l’angoscia esistenziale di Leopardi». Insomma secondo Bosco «l’argomento» di Mastro Bruno alla fine «è uno solo: la mancanza di lavoro, l’ingiustizia, l’avarizia dei ricchi». E il poeta «non chiede altro che lavoro, non importa anche se bestialmente gravoso».

Osserva infine Bosco commentando “Alla luna”: «Certo, il valore di testimonianza di questi versi soverchia il loro valore poetico; e tuttavia anche la stessa testimonianza perderebbe rilievo, si confonderebbe con tanti altri freddi documenti, se non fosse affidata a una sanguigna energia naturale, a una carica umana che qua e là esplode». In questi termini il grande intellettuale rievoca «questa autentica anche se rozza personalità poetica». E conclude: «Possiamo proprio dire che la protesta di Mastru Brunu sia oggi superata, che per i Calabresi le cose siano davvero radicalmente cambiate?».

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