Domenica, 21 Luglio 2024 09:34

Prima della “Certosa perduta”. Istantanee dagli inizi del XVII secolo

Scritto da Tonino Ceravolo*
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La facciata cinquecentesca dell'antica Certosa (si possono notare le statue di San Bruno e Santo Stefano, a fine Ottocento, ancora sulla facciata della chiesa, prima del loro spostamento) La facciata cinquecentesca dell'antica Certosa (si possono notare le statue di San Bruno e Santo Stefano, a fine Ottocento, ancora sulla facciata della chiesa, prima del loro spostamento)

La “Certosa perduta”, abbiamo scritto in precedenti contributi per questa rubrica del Vizzarro, riferendoci a quella parte considerevole del patrimonio artistico e culturale del monastero serrese andata dispersa in seguito alle travagliatissime vicissitudini seguite al terremoto del 1783. Un documento fondamentale consente, tuttavia, di fare il punto sullo stato delle fabbriche e degli arredi della Certosa in uno specifico momento della sua storia, il 1629, un secolo e mezzo prima che con il sisma del Settecento fosse inaugurata una diversa pagina di tale storia. Diciamo del testo della visita apostolica che Mons. Andrea Perbenedetti (1569 – 1634), vescovo di Venosa e visitatore di diverse diocesi del Mezzogiorno italiano su incarico della Sede Apostolica, fece presso il monastero e le chiese dei casali sottoposti alla sua giurisdizione (Serra, Spadola, Bivongi, Montauro e Gasperina), non mancando, ovviamente, di completare la visita con l’esame dei chierici presenti nei luoghi “soggetti nello spirituale e nel temporale” al monastero. Esame, bisognerebbe aggiungere, da cui scaturì, con conseguenti decreti correttivi del vescovo, una situazione in diversi casi non conforme al dettato del Concilio di Trento tenuto e concluso nel secolo precedente. Il manoscritto originale della visita, registrato nell’Archivio Segreto Vaticano, è andato disperso, ma di esso si trova una copia custodita nella biblioteca della Certosa di Serra San Bruno che è stata utilizzata da Pietro De Leo per l’edizione del testo, pubblicata da Analecta Cartusiana nel 2017.

Il “cuore” della chiesa antica

E il testo prende le sue mosse dallo stato riscontrato dei luoghi, ma con l’inespresso sottofondo che, a partire dalla “recuperazione” del monastero serrese all’ordine certosino (XVI secolo), maestranze locali e artisti provenienti da diverse parti d’Europa erano stati incaricati della sistemazione delle sue fabbriche e del loro arricchimento con pregiati manufatti e con opere d’arte. Proprio di questa intensa e costante opera il “verbale” della visita di Mons. Andrea Perbenedetti permette di conoscere importanti particolari intorno alla struttura della Certosa nel terzo decennio del Seicento e allo stato degli arredi della sua chiesa conventuale, primi tra tutti i preziosi reliquiari che ospitavano parte della calotta cranica di San Bruno e il dito di S. Stefano Protomartire, nonché il grande repositorium di ebano e avorio proveniente dalla famiglia degli Altavilla e da questa donato, secondo la tradizione, alla Certosa. Di particolare rilievo era il gruppo di opere d’arte situate nella chiesa al di sotto della cupola, che viene detta ben fatta e dipinta: ai quattro angoli della cupola vi erano le immagini dei quattro evangelisti, mentre nelle nicchie in basso erano disposte le sculture della Vergine Maria "ad cornu evangelii" dell'altare maggiore, la statua di San Giovanni Battista "ad cornu epistolae", più in basso a destra la statua di S. Stefano e a sinistra quella di San Bruno, tutte attualmente collocate presso la chiesa Matrice di Serra. L’altare principale non era ancora, al tempo della visita del Perbenedetti, quello fanzaghiano, commissionato all’artista bergamasco intorno al 1631 e ultimato, con il contributo artistico di Andrea Gallo, verso il 1650. Nel 1629, anno della visita, il vescovo di Venosa vide un altare in marmo, mescolato a porfido, al quale si accedeva salendo tre gradini (due di porfido e uno di legno), ornato con figure di angeli di oricalco dorato e con al centro il tabernacolo in legno. Nel coro alle sue spalle - adornato da stalli di legno cesellato disposti tutt’intorno, di fronte ai quali erano sistemati gli inginocchiatoi - si entrava da due porte in marmo e porfido, su cui erano collocate le sculture della Vergine e di San Gabriele Arcangelo oggi disperse. Nel mezzo del coro si trovava un leggio con i libri per la salmodia e per il canto, mentre alla sua estremità, vicino alla porta d’ingresso al capitolo dei monaci, era appesa una tavoletta sulla quale dei “segni” di legno indicavano a ciascun monaco l’altare dove avrebbe dovuto celebrare.

Altari di S. Stefano, San Bruno e altri santi

A destra dell’altare principale era posto l’altare dedicato a S. Stefano - nel quale si può ipotizzare, ma Perbenedetti non lo riporta, fosse collocato il grande quadro di Bernardino Poccetti, risalente al 1608, con la scena del martirio del santo, oggi nel coro della chiesa Matrice di Serra – e a sinistra l’altare di San Bruno. Al di sotto del piano di questo altare, interamente in marmo, era collocato il sepolcro del santo, in forma di cassetta con copertura in bronzo – a proposito del quale una fonte successiva indicherà anche una “cancellata bellissima di rame dorato davanti” - contenente le ossa di San Bruno. A tal proposito occorre richiamare come un’ordinanza del Capitolo Generale dei certosini del 1610 avesse, appunto, raccomandato al priore della Certosa calabrese di portare a termine la costruzione della chiesa, già cominciata, e il sepolcro “pro repositione Venerabilium Reliquiarium Sancti Patris nostri Brunonis”. Il capo del santo era, invece, conservato in sacrestia - insieme al dito di S. Stefano e al grande reliquiario di ebano e avorio di cui si è detto - dentro il busto argenteo risalente al 1516 e “protetto” dietro la tela dell’Annunciazione attualmente visibile nella chiesa dell’Assunta di Terravecchia a Serra. Nella navata della chiesa, disposti lungo i due lati, si trovavano quattro altari e quattro cappelle per ogni lato, chiusi con cancelli di legno e ai quali si accedeva attraverso due porte poste nei pressi degli altari di S. Stefano e San Bruno. Le porte delle cappelle corrispondevano l’una con l’altra e per loro tramite era reso possibile l’accesso a ciascuna cappella. Gli altari erano dedicati, da un lato, all’Immacolata, a San Francesco di Paola, a San Bruno e a San Marco, dall’altro a Sant’Anna, Santa Maria Maddalena, alla Vergine e a San Francesco d’Assisi. Il prospetto della chiesa (si veda la foto in questa pagina) era adornato con una statua della Vergine oggi dispersa, sistemata nella nicchia centrale al di sopra della porta d’ingresso, e con le statue in pietra di S. Stefano e San Bruno collocate nelle nicchie laterali in basso (e attualmente esposte nelle sale del Museo della Certosa).

Magnifici paramenti, una biblioteca da “seimila ducati” e l’aromatario per i farmaci

La sacrestia era arredata con armadi di legno, dove erano conservati i paramenti magnificamente decorati, nei quali erano inseriti dei tempietti scolpiti nella parte superiore in legno di sicomoro. Sopra la sua porta era appesa la Cena del Signore, dipinta da Michelangelo Buonarroti e fatta venire da Roma, di cui il testo di Perbenedetti rimane l’unica fonte documentaria. Al capitolo dei monaci si accedeva dal coro della chiesa conventuale e in esso era eretto un altare dedicato all’Immacolata. Vicino al capitolo dei monaci si trovava quello dei fratelli, con un altare dedicato al SS. Crocefisso, a cui faceva seguito il coro degli stessi. Tra il capitolo dei monaci e quello dei fratelli si trovava la torre del campanile, a base quadrata sino alla cella campanaria e poi di forma piramidale, sormontata da una croce. La clausura dei monaci era di forma quadrangolare ed aveva tutto intorno un portico con otto archi per ogni parte, separati da quattro colonne di pietra. Nel centro della clausura si poteva vedere una fonte d’acqua e vicino a essa un pozzo profondo, mentre in un lato, secondo le consuetudini dell’Ordine, si trovava il cimitero, in mezzo al quale si ergeva una colonna di pietra poggiata su sei gradini. La prima cella a destra entrando nel chiostro era quella del priore, mentre la seconda era quella del vicario. Tutte le altre celle venivano dopo, sei da una parte e sette dall’altra. I monaci erano quindici più un novizio. La biblioteca era ubicata vicino alle stanze superiori del priore e vi si trovavano libri del valore di circa seimila ducati. In prossimità della biblioteca era stato sistemato uno spazioso aromatario, che forniva medicine non solo al monastero, ma anche, a pagamento, ai luoghi più vicini. Questa era la situazione che, quasi con una serie di “istantanee”, il vescovo Perbenedetti documentava e che il terremoto della fine del XVIII secolo avrebbe radicalmente e per sempre mutato.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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