Domenica, 29 Giugno 2025 07:48

Puorcu, latru e camburrista. Gambino e i poeti della protesta

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Mastro Bruno Pelaggi (in alto a destra) sull'uscio della sua casa nel rione "Zzaccanu" a Serra San Bruno Mastro Bruno Pelaggi (in alto a destra) sull'uscio della sua casa nel rione "Zzaccanu" a Serra San Bruno

Può considerarsi quasi uno sbocco obbligatorio, per uno scrittore come Sharo Gambino, aver messo mano a un’antologia in cui radunare la poesia calabrese di protesta e questo almeno per un duplice motivo. Intanto, per l’attenzione, in Gambino ben sedimentata, per il grande tema della ribellione, che aveva lasciato emergere nella sua produzione letteraria notevoli figure: il brigante-ribelle del Vizzarro, il comunista-ribelle di In fitte schiere, il sacerdote-ribelle di In nome del re schiavo. E poi per quel desiderio, persino compulsivo, per quell’impegno quotidiano, di raccontare le mille Calabrie che a tante sue raccolte antologiche avrebbero dato vita: Antologia della poesia dialettale calabrese (dalle origini ai nostri giorni) pubblicata da Antonio Carello Editore nel 1977, Natali ‘i ‘na vota. Antologia di poesie di Natale in dialetto calabrese (Franco Pancallo Editore, 2003), Venerdì e Domenica. Poesia calabrese del mangiare (Fondazione Carical, Cosenza, 2004), Il racconto vibonese (Il Brigante, 2005), Calabria erotica (Città del Sole, 2008). Per non dire dell’amore per il dialetto calabrese, corteggiato e inseguito nelle sue svariate forme a partire da quella che è considerata la sua più antica attestazione poetica nel Lamento per la morte di don Enrico d’Aragona di Joanne Maurello (Frama Sud, 1983).

La ribellione, la protesta, la contestazione, il dissenso 

Cuviernu puorcu, latru e camburrista … La poesia dialettale di protesta in Calabria (cittàcalabria edizioni, 2005) costituisce il risultato di questo intenso corpo a corpo a cui Sharo Gambino si è dedicato con i poeti che hanno espresso in versi “la ribellione, la protesta, la contestazione, il dissenso”. Una protesta, osserva Gambino, che in Calabria nasce “assai tardi”, nel 1848, dopo la concessione della Costituzione da parte di Ferdinando II di Borbone, come se fino a quell’epoca la regione avesse vissuto “una storia d’elevato livello sociale, economico e culturale, per cui non v’era stata ragione per doglianze, risentimenti, proteste”. Come se prima di allora “non fossero mai arrivate in Calabria le legioni romane ad interrompere la luce magnogreca e non ci fosse mai stato il dominio bizantino, l’occupazione normanna e sveva, il corrotto vicereame aragonese fatto di esasperato fiscalismo, lacerato da lotte intestine e dinastiche, punteggiato di congiure e durante il quale il popolo aveva subito dissanguamento, soprusi, vessazioni oltre l’umana sopportazione, al punto che Spagna divenne sinonimo di paura […]”. Se quella data fa da spartiacque nella periodizzazione che Gambino propone e inaugura un nuovo atteggiamento verso la condizione dei ceti subalterni, le epoche precedenti sono segnate, invece, dal silenzio complice dei “letterati poeti”, dalla loro riscontrabile distanza rispetto alle “frustrazioni delle plebi”. Pensano ad altro prima del 1848 i poeti calabresi, i vari Galeazzo di Tarsia, Giovanni Alfonso Mantegna, Aulo Giano Parrasio, Francesco Franchini. Petrarcheggiano, si illanguidiscono in mezzo a estenuate vicende amorose, sospirano alla luna, tra idilli, ballate, odi e madrigali: “Hanno l’anima tesa alle sfere celesti, sede di Dio, della Madonna, degli angeli e dei santi, o sviolinano canti di languida passione amorosa per la donna, si perdono dietro il paesaggio, si lagnano del proprio stato, e non hanno occhi da girare attorno alle miserie e sui triboli della povera gente, del vulgo languente, mai attenti al dolore del popolo oppresso dal lavoro, che lavora per loro, sul cui lavoro si regge quasi per intero l’economia della regione”. 

Contro il Borbone e contro lo Stato unitario

Protagonista della svolta della metà del XIX secolo è Giuseppe Monaldo, prete di Filadelfia e spirito ribelle i cui componimenti poetici dovettero attendere il 1977 per essere conosciuti. E se la prendeva innanzitutto con il re, con il Borbone, Monaldo nelle sue poesie, avvertendone imminente la fine:

Quandu va lu malatu liettu liettu
E vota li cuvierti supa e sutta,
Pe’ regula sicura, asciutta asciutta,
La morte l’ave supra lu cozziettu.
Ora, si ‘u Lazzaruni ‘on ha rigiettu,
Si suda friddu ed ha ‘na cera brutta,
Si è spanticusu e la cudija ha rutta,
Aviti ca si leva cchiù suspiettu. 

Pagò non piccole conseguenze per questo suo mettersi contro il potere dominante Giuseppe Monaldo, fu sottoposto a sorveglianza speciale, escluso dall’insegnamento, cacciato da Filadelfia e mandato a Pizzo. Né le cose cambiarono dopo l’unificazione nazionale, perché Monaldo si trovò “deluso fra i delusi”, costretto a constatare come la situazione fosse, addirittura, peggiorata, soprattutto per il diluvio di tasse che era piovuto addosso agli italiani appena fatti:

Non c’è tanta sardeja
Pe’ chissu rande mari
Pe’ quantu tassi amari
Sbarcari ccà tu vi’.
Su’ cuomu li chiattiji
‘Sti tassi, ‘annajaguannu!
Ognura fiji fannu,
Ognura prieni su’

Identico atteggiamento di doppia delusione, di duplice sconforto, prima a causa del Borbone e dopo per via del nuovo Stato unitario, si ritrova nei versi di un altro sacerdote, Antonio Martino (Galatro, 1818 – 1884), autore tra l’altro del Pater noster dei liberali calabresi sotto la pressione degli ingenti tributi in dicembre 1866 e di una Preghiera del calabrese al padre eterno contro i piemontesi nel 1874. È vigoroso l’appello che Martino indirizza al re, allora nella sede fiorentina, per invitarlo ad aprire gli occhi sulla miseria della popolazione piuttosto che andarsene a caccia, dormire e fumare:

O patri nostru, ch’a Firenzi stati,
lodatu sempi sia lu nomi vostru,
però li mali nostri rimirati,
sentiti cu pietà lu dolu nostru […]
Patri Vittoriu, re d’Italia tutta,
apriti ss’occhi, ss’aricchi annettati:
lu regnu vostru è tuttu suprasutta,
e vui, patri e patruni, l’ignorati
Li sudditi su’ tutti ammiseriti:
vui jiti a caccia, fumati e dormiti 

Commessi e cancellieri di pretura, pubblica sicurezza e avvocati, “speciarmenti li ricivituri”, spogliano i calabresi e ingrassano, sindaci, consiglieri e assessori “su latri cittadini patentati”, gli esattori sono lupi affamati e i notai prendono in mano una penna che è “comu la lanza di Langinu”, mentre il re, indifferente, pensa agli affari propri e le tasse opprimono i calabresi:

L’agenti di li tassi su’ na piaga
cancarenusa supa a lu vidhicu
sempi la pinna loru scrivi “paga”,
e di li murti loru nenti dicu […]. 

E questa sarà una cifra che contraddistinguerà sempre il versificare di Martino, osserva Gambino, che ritorna spesso nei suoi componimenti “sull’esosità dello strozzinaggio statale inaugurato con l’arrivo dei piemontesi, sul fiscalismo mai stato tanto gravoso durante il deposto regime borbonico, […] sempre convinto che non ci sia giustizia e che, proseguendo con questo andazzo, la soluzione migliore e definitiva sarebbe l’annichilimento, il ritorno nel nulla della Calabria (o dell’Italia tutta?)”.

Le “gridate” di Mastro Bruno Pelaggi al re e al Padreterno

E certo poi bisognerebbe dire di Luigi Gallucci, di Ettore Feraco, di Vincenzo Franco, di Pietro Milone e anche dei poeti novecenteschi antologizzati da Gambino, tra i quali pure il pittore Enotrio, che fecero del dialetto lo strumento per esprimere la propria protesta, il disagio dei ceti popolari, l’ansia di giustizia, ma segnaleremo qui ancora il solo caso, notevolissimo, del serrese Mastro Bruno Pelaggi (Serra San Bruno, 1837 – 1912), i cui versi Alla luna, secondo l’autorevole giudizio di Pasquale Tuscano, “sono forse, non solo il vertice del canto di mastro Bruno, ma di tutto l’Ottocento calabrese, nella linea di quella pensosità che, dai lirici della Magna Grecia (Stesicoro, Ibico, Nosside), a Galeazzo di Tarsia, a Campanella, giunge ad Alvaro e a Lorenzo Calogero”. Ed era stato proprio Gambino tra i primi, con Umberto Bosco, a insistere sulla connotazione di protesta del versificare pelaggiano, ribadendo in Cuviernu, puorcu, latru e camburrista tale cifra caratteristica del poeta di Serra San Bruno, che lo collocava, a fianco di Antonio Martino e Giuseppe Monaldo, tra i critici radicali dello Stato unitario, pure in virtù della delusione storica subita in seguito al compimento del processo risorgimentale: “Bruno Pelaggi è portavoce, a Re Umberto I, delle doglianze delle classi meridionali più povere ed afflitte dal flagello della disoccupazione e conseguentemente della fame […]. Una dura requisitoria […] pronuncia il ‘mastro’, campione della protesta poetica, quando al sovrano che morirà da lì a poco […] scrive la famosa ‘gridata’ (A ‘Mbertu Primu). Sdegnato, punta l’indice accusatore contro il governo, contro ministri e deputati, che in periodo elettorale vanno in giro per le piazze a promettere pane e lavoro e guadagnata la poltrona parlamentare danno dimostrazione palese e smaccata di quanto demagogiche fossero le promesse. […] Nella constatazione delle sordità di cui sono afflitte le orecchie dei politici e favorito dalla coscienza della propria onestà, forte del soffrire che gli è quotidiano compagno, Mastru Brunu alza la voce sdegnosamente per pretenderla da Dio Onnipotente, la giustizia (Littira allu Patritiernu)”. La voce di Mastro Bruno incrociava e affiancava quella degli altri poeti della protesta che, dopo il 1848, si erano stancati di perdersi in un “oceano di amori corrisposti e sfortunati”, elevandosi come un grido vigoroso, autentico, genuinamente “popolare”. Leggendone le strofe, Gambino ritrovava quella Calabria che, prototipo Tommaso Campanella, si ribellava fiera e con ardore contro i “mali estremi”: “La tirannide, la prepotenza esercitata dal potente sul povero – come Gambino scrive nella Prefazione alla sua edizione delle poesie di Pelaggi (Editrice MIT, 1973) – egli la colpì additandola al disprezzo degli uomini di buona volontà; sbugiardò l’ingannevole parolaio elettorale tendente ad ingannare il popolo costretto all’ignoranza; e denunciò l’ipocrisia d’una religione solo apparentemente praticata”. Significativamente, quando si scorre l’indice di tale edizione, ci si accorge subito che ben quattro delle sei poesie pubblicate (A ‘Mbertu Primu, Littira allu Patritiernu, Tu, Signuri, cu mia ti la pigghiasti, Alla luna) hanno come focus il tema della condizione sociale della Calabria, che viene individuata come la nota che caratterizza l’universo poetico di Mastro Bruno. C’è sempre stata, infatti, in Gambino una precisa convinzione critica, che “dichiara” Mastro Bruno poeta dei temi sociali, che produce autentica poesia soprattutto quando si rivolge ai potenti, mondani ed extra-mondani, per dare voce alle lagnanze delle popolazioni della Calabria o quando indirizza alla luna il suo canto sconfortato. Se Bruno Pelaggi è poeta e grande poeta lo è perché, come i Monaldo e come i Martino, è poeta della protesta, di quella protesta, scaturita dentro un ben identificabile contesto storico, di cui in Cuviernu puorcu, latru e camburrista Gambino ha voluto presentare le coordinate.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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