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Giovedì, 30 Maggio 2013 15:53

4 ergastoli in appello per l'omicidio di Lea Garofalo

Scritto da Loredana Colloca
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mini lea_garofaloErgastolo confermato per Carlo e Vito Cosco, assolto Giuseppe, il terzo fratello condannato in primo grado al carcere a vita. Fine pena mai anche per Rosario Curcio e Massimo Sabatino. Pena ridotta, invece, a 25 anni per il 35enne collaboratore di giustizia Carmine Venturino. Dopo sei ore di Camera di consiglio, la seconda sezione giudicante della corte d’assise d’appello di Milano ha pronunciato il verdetto nell'ambito del processo sull'omicidio di Lea Garofalo. Condanne leggermente ridimensionate rispetto al primo grado, con qualche nuovo elemento. Anche se resiste, anzi si rafforza, la parte più corposa e scottante dell’impianto accusatorio, quella che riguarda il ruolo dell’ex convivente della vittima, il 43enne Carlo Cosco

, nelle diverse fasi dell’omicidio e della successiva, tentata, distruzione di cadavere. Particolari agghiaccianti riferiti da Carmine Venturino, giovane ex fidanzato di Denise, figlia di Lea Garofalo e Carlo Cosco. La ragazza, diventata ormai una giovane donna, ha fatto sapere, attraverso il suo legale, di voler celebrare i funerali di sua madre a Milano. Lontano da Petilia Policastro, da dove sua madre era scappata nel tentativo di sfuggire agli aguzzini, con il peso della colpa di aver collaborato con i magistrati. Ma i fratelli Cosco, ritenuti attivi nel traffico di stupefacenti, e a tutti gli effetti in un clan vicino alle cosche del crotonese, l’hanno rintracciata nella sua travagliata fuga durata quasi due anni. Che si è conclusa il 24 gennaio del 2009 in un appartamento alla periferia di Milano. Lea, ora è un fatto documentale, è stata uccisa a colpi di pistola, il suo cadavere trasportato in un capannone e dato in pasto alle fiamme, i resti sotterrati in un terreno nei pressi di Monza. “Lei mi aveva reso la vita impossibile”, ha dichiarato Carlo Cosco in aula, tentando di giustificare l’ingiustificabile, seduto a pochi metri da Denise, quella figlia privata della madre che dall’inizio del processo tiene alto il dito, dritto, puntato contro di lui come la bocca di un fucile.

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