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Giovedì, 05 Aprile 2012 14:49

L’attentato a Filippone e i giornalisti-giornalisti

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mini fortapascNella notte tra martedì e mercoledì l’auto di Ilario Filippone è saltata in aria. L’aveva acquistata pochi mesi fa: l’hanno incendiata, dopodiché hanno sfasciato la cassetta della posta di casa sua. Filippone è un cronista di nera e di giudiziaria, scrive di ‘ndrangheta dalla Locride per Calabria Ora. Le prime a vedere la sua auto in fiamme sono state sua madre e sua sorella. Un attentato gravissimo, l’ennesimo, alla libertà di informazione in Calabria. Una frase banale, questa, ipocrita, che ogni volta che accade un fatto simile rimbalza nei comunicati sfornati in serie dagli uffici stampa di politici e sindacalisti, rappresentanti delle istituzioni e predicatori della “società civile”. Eppure fatti gravi, come quello accaduto a Filippone, a queste latitudini sono all’ordine del giorno. E sempre fiumi di solidarietà vomitevole.

Ilario è uno di quei cronisti che non si rassegna a piegarsi alle devianze del giornalismo da scrivania. Racconta quello che succede nella sua terra, quello che vede tutti i giorni. Va a cercarsi le notizie, chiama le cose con il loro nome, ci mette la faccia. E per questo fa paura: non solo alla ‘ndrangheta per come la si intende tradizionalmente, ma a tutta quell’area di professionisti dell’accondiscendenza che primeggia nel giornalismo come nella politica italiana. Come Ilario, molti altri cronisti, giovani, guardati con diffidenza da quei colleghi che si sono fatti “una posizione”, insistono a scrivere di ‘ndrangheta e di malaffare per senso del dovere, perchè dovrebbe essere una cosa normale, ma anche per necessità. La lista dei giornalisti minacciati è lunga, la ripetono in molti in queste occasioni. Poi c’è la lista degli epurati, di quelli che siccome sono troppo bravi danno fastidio, anche se fanno vendere il giornale. Ci sono, ancora, quelli che subiscono l’emarginazione all’interno del proprio contesto "lavorativo", un’emarginazione subdola che viene perpetrata gradualmente, nel tempo, mortificando qualsiasi tentativo di raccontare la verità senza lo schermo della compiacenza verso i poteri che governano da sempre questa terra. E queste sono liste lunghissime, piene di nomi, spesso sconosciuti, per lo più di ragazzi che scrivono per nulla, per i quali anche un impiego precario è un miraggio. E poi ci sono i giornalisti-impiegati, quelli che hanno il solo obiettivo di chiudere prima possibile il giornale e tornare a casa. Quelli che riempita la pagina, assicurato lo stipendio, dormono sonni tranquilli. La mattina bevono il caffè offerto dall’assessore, disquisiscono dei massimi sistemi con l’avvocato, e hanno trovato di che scrivere.

Lo spiega bene il buon caporedattore Sasà a Giancarlo Siani (cronista ucciso giovanissimo dalla camorra) nel film Fortapasc di Marco Risi. La notizia bomba può essere una rottura di palle, chè poi telefonano, fanno telefonare, querelano, ti fanno terra bruciata intorno. Oppure ti bruciano l’auto. Per ora. Non c’è molta differenza. L’obiettivo del politico che si sente “toccato” da un articolo, spesso, in Calabria, è lo stesso del boss di paese che manda dei ragazzini esaltati a punire il giornalista "‘mpamu e sbirru". Ma la novità, in Calabria, è che c’è chi, come Ilario, non si piega. C’è una generazione di cronisti che ha scelto l’indipendenza da ogni potere e da ogni struttura e che continua a documentare cosa succede in Calabria nonostante le conseguenze che ciò comporta. C’è gente, in giro, come Pietro Comito – epurato da Calabria Ora –, Giulia Zanfino, Emilio Grimaldi e moltissimi altri, che quotidianamente, costi quel che costi, racconta quello che vede senza il filtro dell’ipocrisia e del servilismo. Sono giornalisti-giornalisti, gente che osserva, scava, scrive del territorio in cui vive e sopravvive, senza avere alle spalle il giornale, l’editore, il politico. Soli: il fatto, il cronista e il lettore.

Quello che è successo a Ilario Filippone è molto preoccupante, ma è anche la conferma dell’incisività del suo lavoro. Ilario, come molti altri, ha smosso qualcosa, ha dato fastidio, dunque è un buon giornalista. Noi del Vizzarro gli siamo vicini, ma non vogliamo unirci al coro di solidarietà, non ci sentiamo di reiterare le stesse banali parole ripetute a menadito da chi in realtà vorrebbe aver a che fare solo con giornalisti sdraiati, che “tengono famiglia”. Purtroppo, in questa terra, tra guru, intellettuali, studiosi, scrittori e giornalisti-impiegati, si parla tanto senza dire nulla, si affollano salotti e convegni e si passa il tempo a bearsi del proprio ombelico. C’è anche chi non partecipa a questo ballo mascherato, e si “limita”, molto semplicemente, ad affacciarsi alla finestra e a scrivere della realtà che ha sotto gli occhi, sotto casa. Ci vuole coraggio.

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