Sabato, 14 Febbraio 2015 11:54

Alle origini della fotografia serrese: il laboratorio fotografico 'Il genio'

Scritto da Francesco Barreca
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Era il 1877 quando il pittore Giuseppe Maria Pisani e il farmacista Luciano Cordiano davano vita a Il genio, il primo laboratorio fotografico di Serra San Bruno e uno dei primi della Calabria.

Giuseppe Maria Pisani era nato a Serra nel 1851, ma aveva atteso agli studi di belle arti a Napoli sotto la guida del pittore Domenico Morelli, e a Napoli ancora risiedeva al principio degli anni ’70. A quella data, erano passati all’incirca trent’anni da quando il francese Louis Daguerre e l’inglese William Fox Talbot, separatamente, avevano presentato le rispettive tecniche per “dipingere con la luce”. Il disegno fotografico –in seguito denominato più semplicemente fotografia dall’astronomo William Herschel– da allora si era diffuso rapidamente in tutta Europa, Italia compresa. A Napoli, i primi studi fotografici erano stati avviati nel corso degli anni ’50, soprattutto per iniziativa di francesi e tedeschi, e poi, nel decennio successivo, anche di italiani. Nel 1865, l’Annuario scientifico-industriale registrava quattordici studi fotografici attivi a Napoli; all’inizio degli anni ’70 anche le importanti ditte fiorentine Brogi e Alinari avevano aperto filiali in città. La “mania del ritratto” impazzava e i fotografi, esperti o meno, s’ingegnavano per attrarre clienti. Fu molto probabilmente tale ambiente, così sensibile al fascino della fotografia, a far maturare l’interesse di Pisani, tanto più in quanto molti degli studi fotografici erano stati avviati da suoi colleghi pittori e incisori convertitisi alla nuova tecnica. E questa attraversava allora una fase di rapidissima evoluzione: nel giro di un decennio, infatti, i procedimenti messi a punto da Daguerre e Talbot (dagherrotipia e calotipia) erano stati superati e pressoché relegati nell’obsolescenza. Nuovi materiali e nuove procedure garantivano risultati sempre migliori in termini di tempo e qualità; ed è proprio con la consapevolezza delle rinnovate opportunità di sperimentazione offerte dalla fotografia in campo artistico che Pisani ritornava a Serra, negli anni ’70, deciso a penetrare e possedere i segreti di quest’arte quasi stregonesca.

Negli anni ’50 l’uso del collodio, introdotto da Frederick Scott Archer nel 1848, aveva apportato importanti vantaggi alla pratica fotografica, come la possibilità di riprodurre l’immagine (i dagherrotipi, infatti, non potevano essere stampati) e la maggiore qualità (rispetto alla calotipia), ma realizzare una fotografia restava comunque un’operazione tutt’altro che immediata. Il processo di ripresa “a collodio umido” cominciava in laboratorio, con la preparazione del collodio, un liquido opalescente e sciropposo, altamente infiammabile, ottenuto sciogliendo il fulmicotone (nitrato di cellulosa) in una miscela di alcool etilico ed etere. Per “scattare” una fotografia, si stendeva manualmente uno strato di collodio e sali alcalini sul supporto di vetro o metallo, quindi si sensibilizzava la lastra immergendola, ancora umida, in una soluzione di nitrato d’argento. Passato qualche minuto, si toglieva la lastra dal bagno e s’inseriva nella macchina da presa già a fuoco sul soggetto da riprendere. Al termine dell’esposizione voluta si copriva l’obiettivo con un tappo, si rimuoveva la lastra e si procedeva allo sviluppo dell’immagine latente utilizzando solfato di ferro o acido pirogallico, e infine si fissava l’immagine con acido acetico o cianuro di potassio. Tutto il procedimento andava completato prima che il collodio seccasse: pertanto, nel caso di fotografie in esterni, era necessario avere con sé l’occorrente per il bagno d’argento e almeno una tenda da adibire a camera oscura. Una volta lavata e asciugata, la lastra mostrava un negativo grigio speculare all’immagine reale; per questo motivo, se si era scelto di adoperare una lastra di vetro, si doveva laccare in nero la lastra stessa oppure, in alternativa, poggiarla su un fondo nero; nel caso di lastre metalliche, invece, si poteva laccare la lastra prima di stendere lo strato di collodio. L’immagine poteva essere stampata per contatto su carta opportunamente trattata. A partire dagli anni ’80 dell’Ottocento il collodio umido fu progressivamente soppiantato da tecniche a secco, basate sull’impiego di emulsioni alla gelatina e sali d’argento. La gelatina si faceva sciogliere in acqua calda e vi si aggiungevano sali alcalini, cloruro di sodio, bromuro di potassio o di cadmio e nitrato d’argento; l’emulsione ottenuta, contenente bromuro d’argento, si stendeva sulla lastra e questa si lasciava poi ad asciugare. Si trattava di un decisivo passo in avanti rispetto al collodio: potendo preparare e conservare con calma le lastre in laboratorio e non essendo necessario svilupparle al momento della ripresa, il fotografo non aveva necessità di portare con sé né la camera oscura né l’apparato per il bagno d’argento; non essendo costretto a maneggiare in tutta fretta e in condizioni spesso precarie il collodio, altamente infiammabile, e il nitrato d’argento, anch’esso potenzialmente pericoloso, poteva lavorare in sicurezza anche durante le riprese esterne; infine, le lastre trattate a secco erano più sensibili alla luce rispetto a quelle al collodio.

Che si trattasse di collodio umido o gelatina-bromuro d’argento, il trattamento delle lastre era comunque un’operazione che richiedeva raffinate capacità e solida dottrina per andare a buon fine. Ed era qui che si rendeva necessaria la perizia di Luciano Cordiano, il quale, in quanto speziale, era in profonda intimità con le sostanze e i processi chimici alla base della fotografia. L’industria farmaceutica su larga scala, infatti, stava ancora muovendo i primi passi e il farmacista –alle spalle solidi studi di chimica e botanica e un lungo tirocinio in una spezieria– era chiamato a preparare da sé i “rimedi” indicati dal medico al paziente nella prescrizione. A lui, in effetti, era quasi interamente demandata l’elaborazione di una terapia per il malato, giacché, molto spesso, il medico si limitava a indicare generalmente il “rimedio” e spettava poi al farmacista, informandosi sui malanni del paziente, sui disturbi, fastidi ed eventuali intolleranze, preparare –anzi, creare– un farmaco specifico ed efficace. Un’attività, quella del farmacista, insieme teorica e pratica, artistica e scientifica, che Pisani non aveva difficoltà a riconoscere come affine a quella dello scultore, del pittore, dell’intagliatore: una maestranza. L’esperienza de il Genio fu pertanto qualcosa di più di una semplice iniziativa imprenditoriale: essa va piuttosto collocata nel progetto generale di valorizzazione delle risorse intellettuali serresi promosso da Pisani nel corso di tutta la seconda metà dell’Ottocento, concretizzatosi in realtà come quella dell’Opificio Artistico (avviata con l’ebanista Gabriele Regio) e delle scuole comunali di disegno. Le caratteristiche della fotografia, del resto, ben si addicevano alle attitudini di Pisani tanto sul piano più strettamente tecnico quanto su quello teorico. Egli, infatti, amava preparare da sé i colori –e avrebbe per questo sofferto di saturnismo in età avanzata– e sperimentare nuove soluzioni cromatiche in funzione, sulla scia del maestro Morelli, della restituzione del “vero” storico. La fotografia, la cui posizione teorica tra l’arte, la scienza e l’industria era ancora in via di definizione, offriva possibilità inaspettate a questo riguardo. Pisani, peraltro, prima di trasferirvisi definitivamente alla fine del secolo, si recava spesso a Napoli, dove poteva aggiornarsi continuamente sullo stato dell'arte. Dalle poche prove rimasteci dell’attività de il Genio si può, infatti, intuire sia una ricerca sul colore, con i tentativi di dipingere le lastre di vetro, sia una sperimentazione sulle tecniche a collodio umido e gelatina-bromuro d’argento, come dimostrano le diverse modalità di deterioramento delle lastre, indice dei diversi materiali usati; allo stesso tempo, la fotografia fu impiegata da Il Genio sia come strumento artistico proprio, specialmente nella ritrattistica, sia come mezzo di documentazione e studio per le arti applicate, nelle serie di foto dedicate all’attività dell’Opificio e ai lavori di restauro della Certosa.

L’esperienza de il Genio si concluse nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando la commercializzazione della KODAK, la prima macchina fotografica a scatto, equipaggiata con lastre flessibili (pellicole) e 100 pose a disposizione, lanciata sul mercato nel 1888 con lo slogan You press the button, we do the rest (“Voi premete il bottone, noi facciamo il resto"), e la diffusione, a partire dall’anno seguente, delle nuove pellicole a base di cellulosa, già preparate e pronte all’uso, aprirono una fase completamente nuova nella storia della fotografia, chiudendo definitivamente l’età di pionieri come il Genio.

Si ringrazia il prof. Domenico Pisani per la collaborazione. Le immagini e il logo de “Il genio” sono stati cortesemente messi a disposizione dal sito web www.artistipisani.it, curato da Domenico e Giovanni Pisani, al quale si rimanda per ulteriori testimonianze fotografiche.

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