Mercoledì, 12 Agosto 2020 13:59

Simbologia e natura nelle Serre, Nadile ricostruisce l'etimo di "Pietra di lu Moru"

Scritto da Redazione
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Riceviamo e pubblichiamo:

Egregio direttore, ho visto stamattina un articolo a firma della vice presidente dell’associazione “Terre Bruniane”, raccontare della storia e delle bellezze naturalistiche del bosco dell’Archiforo, raccontando anche della maestosità delle pietre gigantesche che si trovano in quel territorio. Era ora che nascesse da queste parti questo tipo di iniziativa! Ho visto anche, da una foto, che gli escursionisti si sono fermati alla pietra cosiddetta de “lu Moru”, e la signora Letizia raccontare, dall’articolo apparso sul vostro giornale, che quel toponimo nasce perché uno scalpellino di Serra, un certo Lo Moro, lavorava la pietra estratta in quelle montagne.

Da lì, visto che era uno molto bravo, quella pietra prese il suo nome. Ora, nessuno di noi ha attestazioni e certificazioni notarili da esibire, ma se vale la scienza che studia la toponomastica, e ha valore la radice etimologica comparata dei vari toponimi del luogo, quel nome non dovrebbe provenire da lì, bensì (guardando le situazioni presenti in quel posto, di carattere archeologico, e gli altri toponimi vicini) da una tradizione indigena anaria, e che nella lingua greca trova la sua spiegazione, come elemento di sostrato della stessa. Se quel gruppo avesse fatto attenzione - e forse lo ha fatto - avrebbe visto le spaccature verticali, e il “cappello” di pietra “posta” orizzontalmente su quelle tre fasce litiche verticali. L’apertura praticata (uso questo termine non a caso) tra le due colonne, poi ha un preciso orientamento ad est, sull’asse solstiziale d’inverno. Inoltre, da entrambi i lati del monolite è possibile scorgere due figure di volatile, pennuto, il quale sembra apparire come raffigurazione ierofanica di un dio. Dal lato destro, guardando il complesso litico, si nota ed è evidente la testa del pennuto, mentre dal lato sinistro è altrettanto evidente il posteriore della stessa figura. Quel complesso monumentale, modificato sul posto da popolazioni indigene (perché nessuno le ha portate da fuori quei grossi massi), come anche “Pietra dell’Ammianzu” o “Pietra del Paradiso”, ma anche altri gruppi di pietre in quell’area, non sono altro che presenze archeologiche, e raffigurazioni di divinità di una antica civiltà matriarcale mediterranea, contaminata da influssi indoeuropei. E i relativi toponimi di quella zona, come lo stesso “Archiforo” o “Bellu”, o altro ancora, sono termini di sostrato, appartenenti a quella tradizione culturale. Lo stesso nome di “Monte Pecoraro” ha una valenza metaforica, perché in sostanza è il nome del loro dio di riferimento. Per fare un paragone con la figura di Cristo, possiamo dire che Gesù è il buon pastore del suo gregge. Non voglio disturbare più di tanto, e per adesso, spiego soltanto il significato di “Moru”, perché a mio avviso proviene, con la formazione delle lingue neoromanze, dal greco “moros”, che sta a significare: “sorte stabilita per l’uomo, fato, destino. Fato, morte. Personificato, diventa Moro, figlio della Notte”. La Notte è la grande divinità cosmica, la Moira, madre delle Moire: Cloto, Atropo e Lachesi, che Platone, con il mito di Er, nelle ultime pagine della “Repubblica”, chiama Ananke, ossia la madre universale. Le mie non sono fantasie, ed in qualsiasi momento me ne assumo la responsabilità di quello che dico. Se tutti noi cercassimo le nostre radici più profonde e meno stereotipate, forse riusciremmo a difendere meglio i nostri tesori.

Vincenzo Nadile

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