Domenica, 02 Settembre 2012 14:02

Lupi e fagioli

Scritto da Sergio Gambino
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mini fagioliBene! E’ pronta, dopo tanto lavoro, ecco che è arrivato il suo momento. E dopo aver trattato negli ultimi scritti di cose e avvenimenti che ci costringono moralmente a denunciare, assorbendo, in modo giornaliero e intenso, la maggior parte dei nostri spazi…ogni tanto bisogna trattare anche di cose belle. La protagonista di questo mio pensiero è, per dirla come la penso (oh, io la sacciu in sirrisi) “La Fagiola”. Inerpicatasi orgogliosamente sulle reti che, abilmente, mio suocero Bruno Scrivo, detto “Lu Cameli”, ha piazzato, anche con il mio piccolo aiuto, su pali di castagno. Ginelli direi. Una piccola parentesi sulla “pezzatura” del castagno nella tradizione serrese. Non vorrei sbagliarmi ma: Palu, Passoni, Ciavruni, Palipaliermi, Ginelli, Travi.

Questa più o meno, chi avesse notizie più attendibili è pregato di comunicarle immediatamente alla redazione e al Sindaco (per conoscenza), che non è detto che non debba interessargli. Quelli utilizzati da Bruno sono di diametro notevole, “che di peso ne devono tenere”, e dopo aver fatto il buco con la trivella, nella terra precedentemente preparata col “fumiere”, vengono infilati questi pali che io definirei “ginelle”, quantomeno “palipaliermi”. E sono pesanti alquanto, specie se sono le cinque della sera e durante il giorno non ti sei risparmiato. Ma a lavoro finito, quando la rete è tesa, le piccole piantine, voraci di acqua, aspettano il sole per crescere ed inerpicarsi su di lei, che, come una madre, tende le mani al suo pargolo e le aspetta tesa e lucida al sole. Poi, la fagiola, comincia  a crescere e va costantemente liberata da altre piantacce che, senza che nessuno le abbia piantate, vanno a spuntare tra le nostre brave operaie, proprio lì, proprio tra i piedi, e allora, per somma felicità dei cinghiali, vanno estirpate senza pietà e portate al sacrificio. Mangiate vive. Povere piante. Si, mi commuovo, per i sudori e le imprecazioni che mi hanno fatto fare. Dicevamo, ora a fine Agosto, la nostra buona pianta, dopo aver elargito sotto il cocente solleone di luglio e agosto fagiolini e “vajiani” in quantità che abbiamo gustato in tutti i modi possibili e immaginabili, bollite, fredde con l’olio e l’aceto, con la pasta, nell’insalata di riso, cu li patati, solosale, sale ed olio,  eccetera (ma sempi vajiani sugnu…), ecco spuntare tra il fitto fogliame dei bei bacelli giallognoli, che sembra quasi un albero di Natale. E’ lei. La nostra bella “fagiola” matura. Poi, va raccolta, naturalmente in vari momenti, perché va controllato volta per volta lo stadio di maturazione del prezioso legume, e poi levata dal baccello “scuorciulijiata”, compito, per atavica tradizione, delle donne, che fanno cura e attenzione che non passi al loro controllo e setaccio alcun “cuocciu malatu, cà sinnò la pizzijia tutta”. A “pusiedhu”, questa la razza prediletta da Bruno, anzi di li “Cameli” in generale. E’ una questione di gusti personali, ognuno ha la sua prediletta, che come la mia, di fagiola, non ne esiste, si scioglie in bocca…ve la devo far provare….ognuno ha la sua infatti, in Serra altre buone varietà si producono: santaniculisa, puvaredha, favara, borlotta, cannellina, a dùhacci, e se me ne scordo qualcuna vale l’adempimento al punto precedente. E poi conservata nei sacchi. E a Serra tutte le famiglie si facevano i fagioli. Poi? E’ arrivato lo stipendio all’ospedale, i fagioli a due euro al centro commerciale e quella che hanno chiamato globalizzazione che, per farla breve, che fa? C’è un tipo che produce fagioli, e porta la produzione in Messico perché può sfruttare ben bene manodopera di donne, bambini, anziani e uomini validi, per due soldi, poi prende questi fagioli e li porta in Italia, dove quello che produceva fagioli a costi diversi, non ne vende più perché il suo prezzo è più alto, anche se il suo prodotto è certamente migliore. E alla fine, il contadino messicano fa la fame, il contadino italiano pure, la nostra fagiola perde di qualità, e ci guadagna il tipo di prima che meglio identificherò come “porco capitalista”(non me ne vogliano i  signor maiali). E allora mi rivolgo anzitutto ai giovani, e non ai partiti politici che oramai hanno fatto il loro tempo, come tutti questi dinosauri che hanno ancora gli occhi tappati, che pensano di poter ancora con le chiacchiere mantenere il loro stato di agiatezza: dico ai giovani che bisogna che comincino a pensare alla terra, al lavoro e alla produzione. Perché se non si produce nulla, la ricchezza non potrà mai arrivare. Tanti giovani senza lavoro non considerano, anche se magari ne hanno la possibilità, l’agricoltura come sbocco occupazionale. Invece io vi dico che, ragazzi, questa è l’unica possibilità di salvezza e di prospettiva. Ci sono varie forme di associazionismo che permetterebbero l’avviamento di un’azienda, che potrebbe produrre di tutto. Basti pensare che in Calabria si produce neanche il venti per cento del peperoncino che poi commercializziamo. Si può puntare sulle eccellenze, sul prodotto DOP, dai salumi, ai formaggi, alla conservazione. Abbiamo, nei locali dell’associazione “Il brigante” alcuni ragazzi che potrebbero darvi spiegazioni e appoggiare, per quello che sono le nostre possibilità, qualsiasi progetto. Giovani che hanno un pezzo di terra e vogliono investire in loro stessi, dando un senso al territorio, riscoprendo quei valori, anche quei sapori diversi, del lavoro e della collaborazione. Ma anche perché la terra è libertà. Ci sono tanti ragazzi intelligenti in Serra: io penso che se si organizzassero, senza leccare il culo a nessuno, senza dover pregare il cugino o l’Onorevole per un piccolo aiuto, se si rimboccassero le maniche, potrebbero risollevare un territorio egregiamente. Forse c’è stata la fuga di cervelli, penso ai ragazzi serresi, amici, gente seria, preparata e intelligente, che anche da operaio o da medico dà lustro giornalmente alla nostra cittadina, gente semplice, normale…noi perdio…ma di cervelli ne sono rimasti, di ragazzi che riescono a fare un’analisi seria ed obbiettiva io sono sicuro che Serra è piena. Certamente l’agricoltura ha bisogno di lavoro, di quello vero, e i frutti si raccolgono a distanza di qualche tempo. Però fatevi un’analisi. Che aspettate, il posto in fabbrica? Non esiste. Il “posto pubblico”? Non se ne parla, lo Stato parla di esuberi, allora? Forse il turismo? L’Artigiano? E’ tutto finito, l’edilizia è scoppiata. Non c’è altra strada se non la produzione agricola, prima lo capirete, prima comincerete a lavorare per voi, e prima raccoglierete i frutti. Allora, diamo questo sussulto al torpore che ci sta trasformando in pecore. Possibile che non vi sentiate il sangue bollire nelle vene? Che non vi sentiate lupi, e non pecore? Jio mi sientu lupu! 

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