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Domenica, 21 Aprile 2013 12:23

Pd. Cronaca di un suicidio

Scritto da Salvatore Albanese
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mini bersani_piangeCe l’ha fatta. S’è ucciso da solo. Il Partito Democratico, vincitore non morale delle ultime elezioni, s’è stretto il cappio attorno alla gola e dopo lunghe sofferenze è morto. Vittima della propria acuta stupidità. Dell’incapacità di leggere il cambiamento, anzi del non volerlo animare. Il Pd è morto. Affogato nelle urne per la scelta del XII Presidente della Repubblica. Tre giorni e sei votazioni che ci consegnano la fotografia eloquente di un partito che non c’è. Disgregato nelle sue stesse proposte. Nelle fumate nere per Franco Marini e Romano Prodi. Nomi e cognomi che puzzano tanto di politichese e poco di sovranità popolare. Fino alla resa finale per la scelta comoda di Napolitano: l’uomo del giorno prima che torna e mette tutti d’accordo. Tutti tranne l’Italia.
Il Pd è morto. L’ha ucciso il “leader” Bersani, passato dal plebiscito delle primarie alle dimissioni da capo di un governo mai nato. L’ha ucciso la sua classe dirigente impolverata, schiava di accordi e disaccordi. L’ha ucciso il padre-padrone Massimo D’Alema, bramoso di essere Presidente a tutti i costi, a costo, appunto, di distruggere il partito. 
Eppure, già all’ultima tornata, gli elettori avevano lanciato un monito ben preciso a quel partito dimostratosi, ancora una volta, incapace di cambiare. E a fine febbraio, con le urne ancora calde, i democrats si erano svegliati pesantemente ridimensionati. I sondaggi preelettorali li davano ad oltre il 36%. Finirono per essere - sì alla guida della coalizione di maggioranza – ma solo il secondo partito: sorprendentemente superati da un “mostro” partorito dal web. L’armata di Bersani racimolò uno scarso 25%, che tradotto significa 400 poltrone in un Parlamento traballante. Un 25% che non serve a nessuno, soprattutto non serve ad un partito incline all’autodistruzione. Un 25% che vuole significare che l’Italia non li sceglie e non li vuole neanche dopo vent’anni di catastrofico berlusconismo. 
Nonostante tutto, ancora inappagato, il Pd ha continuato ad infierire su se stesso, finendo per suicidarsi nella pancia di un teatrino chiamato Montecitorio. Un teatrino a cui non partecipano tutti, perché Renzi è moderato ma non sciocco e da furbetto si è tenuto fuori dal processo di eutanasia. Autoescludendosi dall’ostinata tendenza della maggioranza del partito di arroccarsi nell’emblema del più chiuso establishment. In un marciume che si formalizza nella proposta di eleggere Presidente della Repubblica il guru Prodi e prima ancora, in accordo con Pdl e Monti, Franco Marini. Proposte che galleggiano in una marea di dissenso, in centinaia di schede bianche, nei voti dei “rottamatori” renziani ed in quelli di altre tre correnti: i franchi tiratori per D'Alema, per la Bindi e per Chiamparino. Alla fine, su tutti e per tutti, avrà la meglio Re Giorgio Napolitano. Una scelta che ci spiega che in questo paese non cambierà mai nulla.
E intanto fuori è il caos. Montecitorio finisce ingoiato fra i boati della folla. La nazione si dice indignata. Grillo allerta i suoi, annuncia la “marcia su Roma” ma poi la diserta. Mentre il redivivo  Berlusconi osserva e assapora in silenzio l’harakiri di un partito che dovrebbe essere di sinistra eppure, per ben sei volte, bistratta la candidatura del costituzionalista, radicalmente anti-berlusconiano, Stefano Rodotà. 
Il Pd. Un partito che si  è spento lentamente, dopo una vita né lunga, né gloriosa. Dispiace per chi ci ha creduto, non per chi l’ha posseduto. 
  

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