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Martedì, 01 Maggio 2012 14:30

Primo Maggio: il Lavoro e il ritorno alla Terra

Scritto da Ulucci Alì
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mini il-quarto-stato_pellizza-da-volpedo_primo-maggioLa crisi economica, la recessione sempre più martellante, l’incapacità di iniziative valide a far ripartire l’economia devono costringere il nostro paese a fare una tardiva, ma legittima, riflessione su ciò che siamo in grado di fare, di produrre, di immettere in ingente quantità e qualità nei mercati. Da troppi anni ormai il primario non rientra più nei piani di sviluppo economico locali e nazionali. Ma proprio alla luce del momento poco favorevole, l’agricoltura dovrebbe essere considerata un settore di base da cui ripartire. L’ultimo vero comparto, almeno in questo territorio, dell’economia reale.

Il fallimento dei sistemi di welfare, della ventata capitalista, i decenni di ininterrotto progresso tecnologico che hanno portato un illusorio iniziale benessere, l’avvento dell’economia globale e virtuale sono ormai elementi di un’economia obsoleta. La stessa economia che ci ha portati alla rovina. Bisogna smetterla di investire nelle industrie. Occorre prendere in considerazione l’idea di trasformarsi in contadini o, se siete snob ed il termine vi soddisfa poco, in imprenditori agricoli. La risposta alla crisi non può che essere il ritorno alla terra. Chi la possiede se la tenga stretta. Chi non ci ha mai pensato, inizi a prenderla in considerazione. Ma sia chiaro, anche in questo caso bisogna pensare ad un’agricoltura nuova e condivisa. Forgiata su una dimensione collettiva che si discosti a pieno dall’approccio individualistico come soluzione ai problemi socio-economici.

L’agricoltura. Il settore Primario. Il primo. Perché la ricchezza di un popolo viene dalla terra. Tutto riporta ad essa. Ricordiamo Portella della Ginestra, quando i contadini, illusi ancora dalla liberazione dal fascismo, sperando in un mondo diverso, occuparono i campi il primo di maggio del 1947. I latifondisti siciliani “assoldarono” Turi Giuliano e i suoi banditi per sparare sulle masse di uomini, donne e bambini. Una strage. E il sangue bagna quella terra che avevano desiderato. Campi da arare, da coltivare a grano. Come i campi di Cutro, che era una delle zone più produttive d’Europa, con grano di eccellenza, dove ora crescono tra i terreni brulli solo pale eoliche. Come il grano di Serra (sicuramente non transgenico). Ricordiamo ancora la venuta della trebbia: era una festa, con i bambini che correvano tutti dietro a quell’enorme mostro buono, che raccoglieva il grano. I canti della mietitura che qualche nonna ancora ricorda. E poi la farina, il mulino…ve lo ricordate? Il pane, i forni utilizzati a turno. Ora non maciniamo più, perché ci siamo illusi di poterci permettere di lasciare la madre terra. E comprarci la baguette invece del nostro pane buono. Primario abbiamo detto, produzione locale, per sottrarre il guadagno a coloro che manipolano le merci e le braccia di quelli che le producono. Le nostre olive marciscono sulle piante; a Cirò, dove si faceva il vino quattromila anni fa, ora i contadini non raccolgono più l’uva. Ma il vino in Calabria si continua a bere. Ma quale? E state pur tranquilli, che in quei luoghi del mondo dove la produzione è stata trasferita, gli operai muoiono di fame lo stesso, c’è solo qualcuno che gioca a scacchi con la nostra vita. La produzione agricola, l’allevamento di bestiame, i derivati del latte: mangeremmo meglio e a costi inferiori, con la possibilità magari di creare anche moneta locale. Speriamo che i giovani, che come noi si stanno avvicinando all’idea di tornare a quella vita semplice, faticosa magari ma autentica e sana, reggano la fatica di ripartire, perché non sarà facile. Ma assieme si può. Assieme rinasceremo, e ci riprenderemo il nostro futuro.

Un futuro che qualcuno si è preso senza chiedercelo, dandoci in cambio solo il disfacimento di una società che aveva fatto della solidarietà e della condivisione tra gli uomini la sua spina dorsale. Oggi, Primo Maggio, festa dei Lavoratori, si ricorda cosa successe nel mondo operaio tra l’800 e il ‘900. La data fu scelta in memoria di uno sciopero organizzato a fine ‘800 a Chicago: uno sciopero, come molti altri, represso nel sangue. A più di un secolo di distanza il lavoro rappresenta ancora un’eterna questione irrisolta soprattutto per le masse che subiscono un sacrificio collettivo preparato a tavolino. Oggi appare ormai evidente che il sistema capitalistico, l’iperliberismo, il dominio della merce sull’uomo e lo strapotere della finanza sull’economia reale (quella, per intenderci, del lavoro e del pane) ha portato il mondo sul baratro, ha creato una maggioranza (silenziosa perché rassegnata) che purtroppo non è più massa critica ma è un agglomerato di persone sole, affamate da una minoranza dominante. Anche in Italia assistiamo a fenomeni causati dalla mancanza di lavoro che non si ricordano a memoria d’uomo: ragazzi bravi, meritevoli, che hanno studiato e che arrivano a togliersi la vita perché i loro sforzi non hanno prodotto nulla, in termini di autonomia economica e dunque di crescita personale; padri di famiglia, lavoratori, anche piccoli imprenditori, che compiono scelte estreme perché vedono sfumare in un attimo il lavoro di una vita; generazioni intere spazzate via, senza futuro, che per la prima volta della storia si trovano in condizioni peggiori delle generazioni che le hanno precedute. E allora la soluzione, almeno la nostra soluzione, non può che essere una rivoluzione. Una rivoluzione forse non nel senso tradizionale, che non si concretizza nella guerriglia armata o in azioni di lotta contro un sistema che, oggi, è così pervasivo da essere diventato liquido e quindi difficilmente identificabile in un’unica struttura. Una rivoluzione, la nostra, che parte proprio dalla terra, dal ritorno alla Madre che ha generato i nostri avi, e dunque anche noi. Una rivoluzione culturale, sociale, che deve passare dalla lotta di persone consapevoli che solo dal territorio che ci appartiene, dalla riscoperta della nostra identità sociale e culturale, può partire un cambiamento reale. Che trova il suo punto di partenza, e non di arrivo, proprio dal lavoro, dalla condivisione di quel poco che ci è rimasto e che può produrre i suoi frutti solo con l’impegno comune. La creazione di sistemi economici virtuosi che possano risollevare le nostre micro-comunità. Qualcuno ci deriderà, lo sappiamo, è già successo per tante altre lotte che poi hanno avuto la giusta legittimazione popolare. Sappiamo che susciteremo perplessità e diffidenza, ma non ce ne preoccupiamo, perché abbiamo la consapevolezza che quello che abbiamo pensato e che faremo è una grande opportunità, ma soprattutto è una necessità. Per noi è l’unica via. Ci hanno fatto tornare al bisogno, e forse può essere un bene se ciò ci farà distaccare dal desiderio, dall’ambizione malsana di possedere sempre di più per primeggiare sui nostri simili. Noi partiamo, da questo Primo Maggio, con la nostra piccola rivoluzione, convinti che saranno in molti a coglierne le potenzialità perché stanchi di piegarsi a subire un destino che non ci appartiene, e che è ora che noi ci costruiamo da soli. Con le nude mani.

Salvatore Albanese

Sergio Gambino

Salvatore Costa

Sergio Pelaia      

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