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E così i colonnelli del Pd le hanno cucito addosso un posticino caldo nella placida Calabria, dove oggi essere democrats vincenti è molto più facile. E non è affatto un caso che la sua candidatura arrivi proprio nella regione più Bersaniana d'Italia, che con un plebiscitario 74,4% alle recenti primarie rigettò con forza lo spauracchio Matteo Renzi.
Quello della Bindi è quindi un nome calato dall’alto. Un’imposizione romana. Una candidatura blindata e coatta che con il nostro territorio non ha nulla a che fare. D’altronde lo schema è sempre lo stesso: si auto impongono, ci sventolano in faccia proclami ed affettuosità, ci seducono, ci colonizzano, poi vincono, ci razziano e ci dimenticano. Si incollano alle poltrone e chi si è visto si è visto. In Calabria ci torneranno per la prossima campagna elettorale. E non c’è da meravigliarsi: la nostra regione da sempre è stata terra di conquista per gli “stranieri”. Perché altrimenti, se davvero le parole del Pd valessero qualcosa, dopo ben 17 anni in Parlamento, la Bindi prima fra tutti avrebbe dovuto ammainare le vele. E non per qualunquismo, né perché “l’antipolitica” lo impone e né per dare adito alla litania continua dei rottamatori. Ma semplicemente perché, nel 1994 da coordinatrice del Ppi, era stata lei stessa a dichiarare: “Il limite delle 3 legislature deve valere per tutti, anche per De Mita o Fracanzani che di legislature ne ha 7. La gente ci chiede un forte rinnovamento, ci ferma per strada e ci dice: “Non candidate sempre le stesse facce!”. Se vogliamo essere credibili dobbiamo presentare una nuova classe dirigente. Insomma, 3 legislature e poi tutti a casa.”(ANSA – 2 febbraio 1994). Cosi parlò Rosy Bindi. Proprio lei che oggi, con la foto ingiallita sulla tessera di partito, chiede ed ottiene la deroga che apre la porta delle primarie Calabresi. Memoria corta o poltrona comoda?
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