mini corteo_t28Mille e 200 chilometri di lontananza non possono bastare a tenere distanti le idee e le azioni di chi quotidianamente si batte a difesa e tutela dei propri diritti e del proprio territorio. E nell’epoca delle relazioni virtuali dove basta una connessione internet per sentirsi più vicini, a volte invece bisogna montare su un furgone e percorrere l’Italia dai piedi alla testa per ricucire margini solo apparentemente distanti, per saldare rapporti che a dire il vero non sono mai stati scollati. Bisogna stringersi la mano, baciarsi sulle guance e guardarsi fisso negli occhi, faccia a faccia, per capire veramente chi siamo. E queste due realtà, il Brigante e il COA T28, si scoprono ogni volta più vicine, anzi vicinissime come due gemelli che comunicano a distanza per telepatia. Così in soli 2 giorni le maglie della rete si stringono, si legano fraternamente per forgiarsi più forti. Legami che prendono la forma della festa e della lotta, dell’incontro inteso come preludio al confronto e soprattutto alla crescita reciproca. L’8 ed il 9 giugno scorsi Milano si è scoperta calabrese, anzi si è scoperta brigantessa, in una due giorni intensa che ha il sapore dell’appuntamento rituale che piace, diverte ed appassiona.

In questi 2 giorni di lotta e di festa per la difesa dei territori, contro la devastazione, la speculazione ed il razzismo abbiamo avuto il piacere di ritrovare oltre che gli amici del T28 anche il Movimento Migranti e Rifugiati Politici di Caserta, Equosud Rosarno ed i Gas del Sole di Milano.

Nella giornata di Venerdì 8 nella piazzetta di via dei Transiti, un’area in passato schiava di spacciatori e degrado ed oggi ‘bonificata’ dallo stesso T28, si è tenuto un incontro-dibattito fra realtà diverse, fra chi lotta quotidianamente per difendere il territorio che abita e che sente visceralmente proprio. E poco importa se la lotta si traduca con le iniziative a favore della sanità o contro l’acqua marcia, per il diritto alla casa o contro lo scempio della TAV, per il lavoro libero e tutelato indipendentemente dal colore della pelle che lo suda, l’importante è ritrovarsi tutti dalla stessa parte, calabresi, lombardi, italiani ed immigrati. Tutti uniti a ridere e ballare, costruire un futuro migliore e gustare del buon vino. A relazionarci per conoscerci, per capirci. Per riappropriarci dei nostri diritti, di cui nessuno, nemmeno una crisi telecomandata, può privarci. Poi, dopo il dibattito, le parole lasciano spazio alle immagini ed in tarda serata, poco prima della cena sociale a base di prodotti calabresi, sul telo del proiettore scorrono le scene della lotta dei Comitati Civici Calabresi per gli Ospedali di Montagna (video realizzato dalla giornalista Giulia Zanfino) ed il cortometraggio sulla storia dei ragazzi africani a lavoro negli agrumeti di Rosarno. Due splendide testimonianze. Un pomeriggio memorabile con dulcis in fundo 2 ore di tarantelle e musiche calabresi.

Il giorno seguente, il sabato, la festa è continuata con un corteo che si è snodato per le vie del quartiere fra la gioia e la curiosità di centinaia di milanesi affacciati alle finestre e accorsi poi di fretta in strada, incuriositi ed ammaliati dalla sinfonia assordante della Banda Pilusa e dalla danza di Mata & Grifone, i celeberrimi Giganti. Emblema dell’unione fra popoli diversi. Nonostante le bizzarrie del cielo meneghino la serata è proseguita allegramente, allietata da una cena impeccabile, consumata nei locali del T28 per rifugiarsi dalla pioggia scrosciante e continua, fino a tarda notte, ancora tutti insieme in apnea, assorti nell’inchiostro di Carmine Abate, Sharo Gambino ed Enotrio, deliziati da poesie e ballate, cullati dalle note della lira e dell’organetto.

Un’iniziativa memorabile che ti fa capire che l’Italia è piccolissima, che Milano e la Calabria sono molto più vicine di quanto si possa pensare e che uscire da questa crisi asfissiante è possibile. Basta continuare a lottare senza abbassare la testa, rifiutando quel debito che non ci appartiene perché non lo abbiamo creato noi e che lentamente, giorno dopo giorno, sta inghiottendo lo stato sociale ed i nostri diritti. Bisogna rimanere uniti, continuando insieme italiani e stranieri, a costruire percorsi comuni che portino ad un’alternativa concreta a questo fallimentare sistema economico. Se per tutto questo c’è un punto di partenza, lo è stato sicuramente questa due giorni, quest'incontro che si celebra una volta l'anno e che non vedi l'ora che accada ancora.

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cartellaMentre camminavo tra le ceneri del C.s.o.a. “Cartella” di Reggio, ieri, l’odore delle travi bruciate, delle cucine andate in fumo e della cenere e di tutto il resto, mi dava la nausea. Non era solo un fatto fisico, l’ho capito appena mi sono allontanato: ragionando sull’accaduto con i compagni del Brigante ho subito sentito un grande sconforto. E una nostalgia fortissima e irrazionale per Ciccio Svelo. L’assemblea pomeridiana, partecipata e incoraggiante, mi ha un po’ risollevato, ma l’amaro in bocca, andando via da quel cumulo di macerie, è rimasto eccome. Ed è tornato a diventare nausea quando ho letto i comunicati di solidarietà che inondano la rete.

Più che la retorica sulla funzione sociale (che tutti scoprono solo oggi) di uno spazio come il “Cartella”, dovrebbe interessare la matrice di quest’azione. Le svastiche disegnate con la bomboletta rossa, per esempio, sono insolite per chi vorrebbe rivendicare politicamente un atto violento di matrice anticomunista. L’incendio, questo è palese, è stato appiccato da mani “esperte”, che dovevano avere la sicurezza del controllo del territorio.

Reggio è una città difficile. Dall’inizio degli anni ’70, dalla rivolta dei “boia chi molla” di Ciccio Franco, progenitore politico di Scopelliti, nella città sono costantemente presenti apparati di potere occulti che troppo spesso hanno goduto della collaborazione – è storia – tra la borghesia ‘ndranghetista, l’eversione nera e i servizi segreti deviati. Apparati sempre presenti, redivivi. Che forse vacillano e quindi reagiscono. Qui quello che conta è il territorio. Il controllo capillare dell’economia e del consenso.

Il territorio è l’obiettivo dei ragazzi del Cartella, come di molte altre realtà sociali che in Calabria stanno per la prima volta facendo rete. Hanno occupato spazi che erano stati pagati con soldi pubblici, dei cittadini, ben presto finiti nel degrado, in mano ai caporioni delle ‘ndrine di Gallico, dei Iannò e dei Suraci e di molte altre “famiglie”. Hanno combattuto lo spaccio di eroina, che in quella piazza, prima che arrivassero loro, era prospero. Hanno fatto teatro, hanno organizzato servizi per gli immigrati, hanno creato forme di microeconomia sostenibile. Sono stati avvertiti tante volte, minacciati, che quando sarebbe stata l’ora, da lì avrebbero dovuto andarsene. L’ora a quanto pare è arrivata. Ma non se ne vanno, e provano a convincerli con le fiamme.

Quello spazio è strategico, appetibile per molti. Con i lavori del lungomare e lo svincolo A3 a pochi metri, l’area ha un potenziale commerciale su cui qualcuno vuole mettere il cappello, anzi la coppola. Poi i ragazzi parlano, scrivono, fanno un sacco di iniziative, cercano di riprendersi la periferia. Ovvio che danno fastidio. Non deve sorprendere, quindi, se in questo surrogato di democrazia che è l’Italia, la prima preoccupazione del ministro Cancellieri è il popolo No Tav - e non, ad esempio, lo strapotere della ‘ndrangheta o il voto kazako di Catanzaro - se il potenziale leader del centrotrattinosinistra dice che bisogna negare l’ambulanza a chi non paga le tasse, se nessuna istituzione (Comune, Provincia, Regione) sente il dovere di schierarsi incondizionatamente al fianco dei ragazzi del Cartella. La discussione, oggi, non è sul loro operato, né sulla loro ideologia politica. La gravità e la violenza dell’atto che hanno subìto impongono una riflessione a livello superiore. In Calabria, ma non solo, ci sono persone che impegnano il proprio tempo a lavorare per sottrarre spazi e persone al degrado, alla malavita, all’abbandono. Quello che fanno può anche non piacere, è discutibile come ogni cosa, ma di fronte ad un’aggressione del genere, non si può cedere a timidezze o a personalismi. Bisogna stare con loro e aiutarli a ricostruire, con i fatti. Perché è chiaro da che parte stanno, non c’è ambiguità. Quello che non è chiaro, purtroppo, è da che parte sta lo Stato. 

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Giovedì, 26 Aprile 2012 17:18

Siamo tutti impiegati

mini storia_di_un_impiegato“Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni, da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”. Lo diceva, o meglio lo cantava negli anni ’70 Fabrizio De Andrè in un concept album, “Storia di un impiegato”, le cui canzoni ruotano intorno ad un unico filo conduttore come fossero i capitoli di un romanzo. Attraverso la storia di un trentenne, impiegato alle poste, il compianto cantautore genovese, ripercorreva la vicenda umana e politica dell’italiano medio, di quell’essere piccolo borghese che, in cambio del rispetto delle regole di chi detiene il potere, ha la possibilità di godere quei pochi “privilegi” (“banca e famiglia danno rendite sicure”) che la “maggioranza” parlamentare gli concede, fino a quando decide di ribellarsi e viene messo in carcere dove acquista la coscienza collettiva di appartenere tutti alla stessa classe di sfruttati. Già, perché io non credo che “il potere logora chi non ce l’ha”, quando vi è la ribellione chi detiene il potere ne esce sconfitto, logorato, un po’ come quel genitore spossato dopo aver atteso per ore che il proprio figlio, minorenne, rientri a casa durante le tarde ore della notte. Il termine stesso “maggioranza” che deriva dal latino majores è assai ambiguo. E’ curioso vedere come le parole spesso mutano significato col tempo, ed oggi questo stesso termine identifica la minoranza che detiene il potere. Lo stesso popolo, cioè la maggioranza, è chiamato in causa esclusivamente nel momento in cui è giunta l’ora di conferire, attraverso il voto, i privilegi a questa minoranza di privilegiati. Oggi, col Governo Monti è nata una nuova minoranza che è giunta in soccorso di quella politica, la minoranza dei tecnici che, sul presupposto di un pareggio di bilancio, sta mettendo in croce la maggioranza dei tanti italiani che non li aveva delegati a governare. Non si tratta certamente di un governo illegittimo perché gode sempre di una maggioranza-minoranza che lo sostiene ma di un governo non rappresentativo, cioè di un governo prestanome che governerà in nome e per conto del potere economico. E oggi siamo un po’ tutti impiegati, con la voglia di ribellarci ma senza alcuna intenzione di perdere quei minimi privilegi che una vita piccolo borghese ci regala.

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