Il vento piange. La terra asciuga. Le urla e le lacrime rimbalzano tra i vicoli vuoti del centro abitato. Tra le case e le strade. Poi si frantumano. Si sciolgono nel silenzio. Gemono. Si spengono. Le vite non hanno ovunque lo stesso peso, figuriamoci le morti. L’unità di misura cambia al variare delle latitudini geografiche, in una nazione spaccata nei sentimenti e discorde nelle opportunità. C’è la vita di chi muore ammazzato in una pineta di Ripe di Civitella, in fondo ad un pozzo nella campagna di Avetrana o tra la fitta vegetazione di un campo incolto alle porte di Brembate Sopra. E poi ci sono le “altre” morti. Quelle che non valgono la prima pagina dei quotidiani, il plastico di “Porta a Porta”, le poltrone bianche di “Domenica In” o l’indignazione sintetica della Barbara D’Urso di turno. Storie di microfoni spenti che uccidono ancora. Per la seconda volta. Come per Filippo Ceravolo, 19 anni, innocente. Sparato in un agguato ‘ndranghetista fra Pizzoni e Soriano Calabro. A bordo di una macchina che non era la sua macchina.