Domenica, 25 Febbraio 2024 09:13

Morte al mondo. Sandro Onofri a Serra e in Calabria

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Sandro Onofri (a sinistra) a Pentedattilo (foto di Vito Teti, da Il senso dei luoghi). Sandro Onofri (a sinistra) a Pentedattilo (foto di Vito Teti, da Il senso dei luoghi).

Quando Sandro Onofri (Roma, 1955 – Roma, 1999) giunse a Serra in compagnia di Vito Teti aveva già visitato, come racconta lo stesso Teti in Il senso dei luoghi (Donzelli, 2004), le “baracche lungo la costa di Curinga e poi Pentedattilo”. A Serra era arrivato, lasciandosi alle spalle le vallate del Mesima, dopo aver superato Soriano e Sorianello e la visita avrebbe prodotto un lungo articolo, nostra nuvola di carta del mese di febbraio, uscito nel gennaio 1997 sul Diario della settimana, il giornale di Enrico Deaglio su cui aveva cominciato a scrivere sin dal primo numero del 23 ottobre 1996. L’articolo si intitolava Morte al mondo, e sarebbe stato poi inserito anche nel volume Le magnifiche sorti. Racconti di viaggio (e da fermo) edito da Baldini & Castoldi nel medesimo anno, laddove la “morte” di cui si parlava era quella dei monaci certosini che, da sempre, scelgono di trascorrere la loro vita nell’ambiente della clausura, separandosi da tutti in quella che, secondo una ben nota espressione, si poneva come una fuga mundi e che Onofri interpretava in maniera ancor più lessicalmente radicale. Sandro Onofri, nel momento in cui si accingeva a scrivere di Serra e della Certosa, era già uno scrittore che aveva lasciato una significativa traccia di sé nella cultura italiana: nel 1991 aveva pubblicato presso la casa editrice Theoria il romanzo Luce del Nord con cui si sarebbe aggiudicato, nello stesso anno, il premio “Giuseppe Berto”, mentre nel 1993 era uscito, sempre con Theoria, a metà tra reportage e narrativa d’invenzione, Vite di riserva ambientato tra i Navajos e nel 1995 Colpa di nessuno, ancora un romanzo. E Serra era sì, per Onofri, i certosini e la loro “morte al mondo”, ma era pure il suo paesaggio, un paesaggio, lo vedremo, che gli produrrà quasi un effetto straniante, come di un settentrione trapiantato nelle terre meridionali. 

“Un pezzo di Nord spillato tra i calanchi calabri”

In realtà, nell’articolo di Onofri si saldavano due diverse immagini del paesaggio di Serra e delle Serre, che si erano consolidate nel lungo periodo di alcuni secoli: la più antica immagine del deserto (deserto-foresta e deserto-eremo, scelto da san Bruno di Colonia per stabilirvi il suo insediamento monastico) e un’immagine temporalmente più vicina, le Serre come Nord, scaturita nel XIX secolo allorquando essa venne forgiata in alcuni testi quali il diario di viaggio di Horace Rilliet e un volumetto su Manhès e il brigantaggio di Francesco Montefredine: “C’è un posto in Italia che per la sua storia ha assunto nell’immaginario collettivo il valore simbolico del deserto evangelico, luogo di espiazione, di isolamento, di prova con se stessi. - scrive Onofri - Questo posto è Serra San Bruno, proprio al centro della Calabria, provincia di Vibo Valentia [...]. Il posto è di per sé atipico. Nulla a che spartire con l’immagine canonica della Calabria, tutta mare e terre aride. Questa è terra di boschi e funghi. È un pezzo di Nord spillato tra i calanchi calabri e i deserti lucani. Non c’è più niente delle lande gialle che la circondano, le ultime folate di sabbie e terra gialla si fermano a coprire le strade di Soriano Calabro, a dieci chilometri da qui. Poi il paesaggio si ricompone e si compatta nella vegetazione fitta delle Serre, insolitamente ammansita per essere vegetazione del Sud, in un modo che gli emigranti devono aver importato dall’America o dalla Svizzera. Colpiscono soprattutto gli steccati messi ai bordi dei vialetti che si addentrano nel fitto bosco, e persino il legno delle capanne costruite per conservare gli attrezzi da lavoro dei giardinieri, sistemati secondo un gusto non italiano e non calabrese, più in linea invece coi requisiti del turismo ambientale d’oltreoceano. E la certosa, coi suoi torrioni e le sue alte muraglie, accentua il senso di alterità di questo luogo”. Ecco, alterità è forse il termine che fa da chiave di volta di questo brano, lo straniamento che colpisce il viaggiatore quando si trova di fronte a visioni non consuete, a immagini che mettono in questione il patrimonio di idee ricevute. Ed è singolare la capacità di Onofri nel fissare questi caratteri del paesaggio serrese, cogliendone i tratti specifici e riconducendoli anche al loro possibile rapporto con la storia dei luoghi. E ben a ragione Vito Teti osserva, a proposito di questa pagina di Onofri, che “l’occhio del viaggiatore curioso e penetrante non si ferma alle bellezze della natura, ma scorge di quel paesaggio apparentemente selvaggio e primitivo i segni dell’uomo”.

“Morte fino a quando arriva l’altra morte”

Poi c’è la Certosa, ci sono le domande che Onofri rivolge per email al priore dell’epoca dom Jacques Dupont nel tentativo di dare risposta ai propri dubbi, c’è il filo conduttore della “morte al mondo”, “morte fino a quando arriva l’altra morte, l’ora di sparire definitivamente nel piccolo cimitero senza lapidi e senza nomi”. E “morte al mondo” gli sembra un’espressione ambigua, “volontà di sparire dal mondo e insieme determinazione a farlo sparire […]” e da qui i dubbi, gli interrogativi che suscitano il desiderio di trovare una risposta e per i quali si rivolge al padre priore nella speranza che possano avere scioglimento: “Ma cos’è: ascetismo o ricerca di un duro castigo? Si tratta di un atto di intensa fede o di terrore esistenziale? Oppure di arroganza? È solo volontà di mettere la morte tra sé e il mondo oppure c’è anche una valenza puramente religiosa che va considerata nella sua determinazione positiva, affermativa di sé e di Dio, sia che ci si creda sia che no?”. Domande che Onofri rivolge innanzitutto a sé stesso, nello sforzo intellettuale della comprensione di un mondo con il quale, inevitabilmente, deve misurarsi con lo sguardo dello “spettatore” esterno, che impatta dinanzi a scelte di vita sensibilmente estranee al flusso dominante del mondo attuale. Allo straniamento di fronte al paesaggio naturale corrisponde così un ulteriore (e forse ancor più profondo) straniamento al cospetto di esistenze che non è semplice inquadrare. A colpirlo è soprattutto l’esiguità del numero dei postulanti ammessi in Certosa rispetto al numero, notevolmente più elevato, dei richiedenti. Cosa cercavano i tanti che non sono stati autorizzati a proseguire lungo l’iter monastico? E perché chiedevano di diventare padri del chiostro, piuttosto che fratelli conversi, volendo realizzare, in questo modo, una più piena “morte al mondo”? Tante, troppe, le motivazioni, con al sottofondo, in generale, “un bisogno di solitudine e fuga. La convinzione, dentro, che la vita, così com’è, non può dare forza al pensiero. Come se fossimo tornati al tempo in cui chi vuole vivere col suo pensiero, dialogare con la propria interiorità, non abbia altra scelta che l’isolamento eremita”. Evidente la difficoltà, alla fine, a trovare un solido filo comune in grado di legare, in una convincente spiegazione, la varietà delle motivazioni di chi bussava al portone della Certosa senza trovare accoglienza alla propria aspirazione alla clausura, a tal punto che Onofri vi intravedeva, ancor più che un positivo anelito alla ricerca di sé, soprattutto il volto di una totale rinuncia negativa alla vita, “come se la felicità non abbia più da essere una possibilità terrena” concludeva, prendendo in prestito le parole del Sereno dopo la nebbia di Giovanni Comisso. 

Una “dolce umiltà”, un “sorriso aperto”

Era stata una giornata di straordinaria bellezza quella che con Vito Teti e Sandro avevamo trascorso a Serra e di cui sarebbero rimaste le “visioni” del paesaggio della montagna nelle pagine di Morte al mondo, concludendola con una inevitabile scorpacciata di funghi, consumati nei cento e mille modi che ne sanno esaltare i sapori. Per me sarebbe stata anche l’unica giornata passata con Sandro, poca cosa rispetto alle tante mail che ci eravamo scambiati prima della stesura del suo articolo, per il quale gli avevo fatto da tramite con il priore dom Jacques Dupont. Ma erano bastate quelle poche ore per coglierne dal vivo l’umanità profonda, “la sua dolce umiltà, il suo sorriso aperto, la forza silenziosa” di cui avrebbe parlato Stefano Giovanardi nella commemorazione su Repubblica del 22 settembre 1999. Sandro era scomparso due giorni prima, il 20 settembre, a soli quarantaquattro anni, ucciso in pochi mesi da un tumore. Era una bella persona ed è impossibile dimenticarlo.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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