Domenica, 04 Febbraio 2024 08:13

Natura, arte e spiritualità. Com'è cambiata (e come sarà) Santa Maria

Scritto da Francesco Barreca
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Foto di Santa Maria pubblicata da Franco Gambino su Facebook e da lui datata 1938 Foto di Santa Maria pubblicata da Franco Gambino su Facebook e da lui datata 1938

Le ultime settimane sono state segnate dalle polemiche su Santa Maria del Bosco: com’è, come vorremmo che fosse, come non vogliamo che diventi dopo i lavori che intende realizzare il Comune di Serra San Bruno (ne abbiamo già scritto qui). Sulla bontà del progetto dal punto di vista tecnico c’è poco da dire, a parte constatare che è stato valutato e regolarmente approvato dagli organi competenti; meno ancora c’è da dire sul piano estetico: i gusti sono gusti e credo non sia mai avvenuto che un progetto architettonico o un’impresa artistica abbiano riscontrato subito approvazione unanime. Basti pensare che il progetto di Brunelleschi per la cupola del Duomo di Firenze suscitò all’epoca vivaci polemiche e, in seguito, gli affreschi dell’intradosso raffiguranti il Giudizio Universale iniziati da Vasari e completati da Federico Zuccari furono criticati perché troppo “moderni” e non in linea con lo spirito dell’opera del “riabilitato” Brunelleschi (a  parziale scusante dei critici di Brunelleschi, va detto che in quel caso si parlava davvero di qualcosa di mai visto e incredibile).

Un po’ di chiarezza su storia e identità del luogo

“Il lume della piazza”, per dirla con Vasari, non sempre è una guida sicura per il giudizio, e un dibattito pubblico imperniato solo su aspetti tecnici ed estetici non condurrebbe ad altro che a una irriducibile polarizzazione delle opinioni. Piuttosto, i toni a volte accesi e le prese di posizione forse non sempre disinteressate danno occasione, a mio avviso, di riflettere in maniera più generale su che cosa effettivamente sia Santa Maria. Lasciando da parte la complessa e non irrilevante questione giuridica, burocratica e catastale (il bosco fa parte dei domini ex-feudali appartenuti al Patrimonio Ecclesiastico Regolare, poi concessi in enfiteusi perpetua al Regio Demanio che, nel 1874, li cedette ad Achille Fazzari e Giuseppe Fabbricotti e furono infine rilevati dai titolari dell’azienda “La Foresta”; la chiesa è santuario regionale di proprietà ecclesiastica e inclusa nel catalogo generale dei beni culturali; le parti asfaltate sono di competenza comunale e l’intero sito è gestito concertatamente da diversi Enti e istituzioni laiche e religiose) quel che traspare è come Santa Maria sia un luogo dall’identità multiforme e mutevole, e in virtù di ciò ogni intervento – conservativo o meno – appaia di per sé controverso e contestabile. Santa Maria infatti è prima di tutto un eremo, sì, ma anche un patrimonio artistico, uno dei principali luoghi sociali di Serra e parte di un sistema economico. Perciò, visto che a ragione si chiede che gli interventi siano rispettosi della storia e del significato del luogo, vale la pena provare a chiarire quali siano questa “storia” e questo “significato”.

Da “eminenza” del bosco...

Per tutto il primo Novecento, Santa Maria è semplicemente una zona del bosco così chiamata per via della presenza di una piccola chiesa che, quasi interamente distrutta dal terremoto del 1783, era stata ricostruita alla bell’e meglio nel 1856 con materiali di riporto. Una guida del 1900 descrive l’area come “un’eminenza boscosa” su cui “sorge la chiesuola moderna di Santa Maria del Bosco, con una statua marmorea di San Bruno ed un’iscrizione annunziante che il santo costumava recarsi in quel luogo a far meditazione.” In un articolo dedicato a Serra a firma di Salvatore Pagano e apparso nel 1923 su “Le vie d’Italia”, rivista mensile del Touring Club Italiano, a Santa Maria vengono dedicati pochi cenni, giusto per segnalare “il primitivo tempietto, riedificato, e la grotta nella quale il santo riposava e il laghetto, nel quale macerava le sue carni” e “l’abete sotto il quale egli soleva pregare…” L’articolo è corredato da diverse foto delle chiese di Serra, della Certosa, del bosco, persino del “bottaccio” (guttazzu), ma nessuna di Santa Maria. Per i turisti e i viaggiatori, Santa Maria era semplicemente un luogo “pittoresco”, degno di nota per quel bosco lussureggiante dove, secondo la tradizione, san Bruno aveva condotto vita da eremita. Per i serresi, invece, Santa Maria era principalmente un luogo di culto. Ogni anno, in occasione del lunedì e martedì di Pentecoste, vi venivano portate in processione dalla Certosa le reliquie di San Bruno; presso il laghetto si praticavano gli esorcismi degli spirdati e l’unzione degli infermi e si teneva una grande fiera nel corso della quale, ci informa Pagano, “i fedeli provvisti di abbondante colazione si disseminano nei boschi, a brigatelle e comitive, banchettando sui tappeti verdi, cantando e danzando al suono delle cornamuse e dei pifferi.” In ogni caso, tanto per i forestieri quanto per i serresi, Santa Maria non era un luogo “turistico” né tantomeno uno spazio unitario, coeso e distinto dal bosco; piuttosto, si trattava di un luogo del bosco. L’identità profonda di Santa Maria era determinata dal fatto che i luoghi di San Bruno – la chiesa, il dormitorio, il laghetto, l’albero inginocchiato – fossero parte del bosco, della sua vita e del lavoro che in esso si svolgeva; e non vi fosse, tra il bosco stesso e quei luoghi, alcuna soluzione di continuità. I nomi stessi della chiesa e della località, che si richiamano a vicenda, segnalano questo legame essenziale: la chiesa di Santa Maria del bosco. Quale bosco? Il bosco di Santa Maria. Il carattere di Santa Maria era quello di essere altro: altro rispetto al paese e alla Certosa stessa. E che fosse il luogo dove si svolgevano i riti di purificazione collettiva e si guarivano gli ossessi non è che la conferma di questa alterità. Nelle guide del primo Novecento le foto di Santa Maria sono rare perché Santa Maria è essenzialmente bosco. (L'articolo continua in basso)

L'area di Santa Maria nel primo Novecento

Il laghetto nel 1928 © Istituto Luce

Il laghetto negli anni '30

...a monumento nel bosco

La costruzione di Santa Maria come spazio unitario ricavato nel bosco è recente e in buona parte dovuta a Giuseppe Maria Pisani (1927-2016). Nei primi anni ’50 fu avviata una generale politica di incentivazione del turismo, settore in prospettiva redditizio ma fino ad allora poco sviluppato, e Santa Maria fu individuata come sito dal potenziale inespresso sul quale bisognava intervenire per “allinearlo” ai gusti e alle richieste del turismo di massa. L’area fu liberata dalla fitta vegetazione, il sentiero che l’attraversava correndo tra il ruscello e il laghetto diventò un “piazzale” e a Pisani venne affidato l’incarico di curarne la sistemazione. Grazie all’uso pressoché esclusivo di materiali e lavorazioni tradizionali in granito e ferro battuto, Pisani mirò a fare di Santa Maria un complesso monumentale ben integrato nella quinta scenografica naturale dei boschi; un luogo che si mostrasse insieme solenne e dimesso, austero e accogliente, in un approccio teso a renderlo fruibile alla comunità locale e ai turisti senza però tradirne l’originale identità di eremo. In questa prospettiva vanno intesi la fontana nel piazzale e gli elementi di arredo, mentre la scalinata, che richiamava le cordonate delle ville rinascimentali, divenne l’elemento architettonico centrale intorno al quale fu organizzato e definito lo spazio monumentale. Dall’alto, le balaustrate scendono all’inizio in linea retta per poi curvare sinuosamente verso l'esterno a metà percorso (fatto decisivo, questo, per comprendere l’impostazione del progetto attuale di ristrutturazione), aprendosi ad accogliere il visitatore al limite del piazzale. Coi suoi gradoni bordati di granito e l’aggiunta nell’ampio gradone di mezzo dell’obelisco in precedenza posto in piazza San Giovanni, la scalinata invita a sedersi, a essere utilizzata come luogo pubblico e di relazioni e non solo come elemento funzionale. Pisani intervenne lì dove aveva più margine e libertà, sul declivio che conduceva dal laghetto alla chiesa, e con un approccio moderno e innovativo lo rese il monumento più importante, senza il quale Santa Maria, come complesso monumentale, semplicemente non esiste. (L'articolo continua in basso)

Santa Maria negli anni '50

Santa Maria negli anni '60

La "separazione" tra sacro e profano

Per quanto la sontuosità dell’opera di Pisani emerga in maniera discreta, naturale, in accordo col contesto e senza mostrare intendimenti sfarzosi, il suo impatto fu drastico, poiché ridefinì il senso del luogo nella sua totalità. Non solo quello che era stato uno spazio del bosco veniva ora individuato e definito come spazio autonomo nel bosco, ma soprattutto, interrompendo la continuità tra la parte alta e quella bassa dell’intera area e proponendosi come elemento centrale del complesso, la scalinata monumentale pose i presupposti per la separazione tra lo spazio propriamente “sacro” e devozionale della chiesa e del dormitorio e quello più “profano” e ricreativo del piazzale. È vero che già in precedenza qui vi si svolgeva una fiera, ma essa era legata al culto e ai riti che avvenivano presso il laghetto, dai quali traeva il suo senso e in cui aveva la sua giustificazione. Da questo punto di vista, la scelta di Pisani di delimitare il laghetto con catene di ferro agganciate a monoliti di granito simili a quelli delle balaustre della scalinata appare dettata, oltre che da motivi di sicurezza e di decoro, dall’esigenza profonda di circoscrivere e cercare di non sminuire questo spazio “sacro” che adesso si ritrovava inserito, per certi versi in maniera incongrua, in uno spazio “profano” rinnovato, separato dal bosco e il cui senso non dipendeva più né dal culto né dal simbolismo del bosco stesso. L’eremo con ciò si trasformava radicalmente, assumeva un carattere monumentale e “laico” che in precedenza gli era estraneo e che Pisani, con tutta probabilità, avrebbe voluto enfatizzare ancor di più: oltre al rifacimento del dormitorio, infatti, uno dei progetti poi accantonati prevedeva di trasformare Santa Maria in uno spazio monumentale chiuso in cui il piazzale, interamente pavimentato in granito, è cinto da un muretto in pietra chiuso dal cancello in ferro battuto (sul sito artistipisani.it si possono vedere le immagini) oggi collocato all’ingresso del Museo della Certosa.

La chiesa, il dormitorio e il piazzale-parcheggio

La proposta si scontrava con la sensibilità e le esigenze di una comunità in cui, con la motorizzazione sempre più diffusa, si avvertiva la necessità di infrastrutture adatte agli spostamenti in automobile. I serresi (e i turisti), evidentemente, volevano vivere Santa Maria anche al di fuori della consueta ritualità devozionale e la nuova organizzazione dello spazio prevista da Pisani creava le condizioni generali perché ciò potesse avvenire. D’altra parte, l’istituzione della festa religiosa del 6 ottobre, la soppressione della tradizionale fiera di Pentecoste e la cessazione dei riti di purificazione stavano già ridimensionando il ruolo di Santa Maria nelle pratiche del culto di San Bruno. L’asfaltatura del viale della Certosa fu dunque estesa fino a includere il piazzale; e con l’asfalto, il giro in macchina fino a Santa Maria divenne presto un’abitudine – se non un tratto culturale caratteristico – dei serresi, tanto che il piazzale stesso al principio servì soprattutto da parcheggio e spazio di manovra. Il millenario sentiero del bosco, che per i serresi era stato strumento di vita, lavoro e devozione, era ormai diventato una scalinata con annesso parcheggio. Questa nuova modalità di fruire del luogo contribuì a far avvertire come necessaria la ristrutturazione della chiesa. Nel 1963 l’architetto catanzarese Franco Domestico fu incaricato dei lavori di consolidamento strutturale e del rifacimento della copertura; un decennio dopo fu sempre Pisani, che nel frattempo aveva progettato e fatto installare il cancello d’ingresso e la ringhiera interna del dormitorio, a occuparsi dell’altare e dei lampadari, conferendo al tutto pressappoco l’aspetto odierno. L’insieme di questi interventi determinò, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, la cristallizzazione della triplice identità di Santa Maria così come la conosciamo oggi: allo stesso tempo eremo spirituale, attrazione turistica monumentale e luogo sociale e affettivo della comunità locale. Nel giro di pochi anni, quello che nelle guide turistiche della prima metà del Novecento veniva presentato come un umile tempietto nel bosco, meritevole d’una visita soprattutto per il suo significato spirituale, era diventato uno spazio integrato da vedere e vivere a più livelli. Santa Maria non era più un luogo del bosco, non era più rimossa dal paese e non era più altro rispetto a esso, ma anzi si proponeva come uno dei suoi spazi e delle sue attrazioni principali. Quanto il lavoro di Pisani sia stato efficace lo provano l’attaccamento dei serresi a questa “nuova” Santa Maria e il fatto che, oggi, non sia in discussione l’impianto generale del sito, ma solo quelle parti (pavimentazione del piazzale e illuminazione) che già per Pisani erano state in buona parte soluzioni di compromesso imposte da fattori esterni. (L'articolo continua in basso)

Santa Maria prima del divieto di accesso alle auto

Santa Maria prima del divieto di accesso alle auto

Eremo, "salotto buono" o prodotto da souvenir?

Tuttavia, l’equilibrio tra spiritualità, monumentalità e socialità ricercato da Pisani non può che essere instabile e contraddittorio, essendo di volta in volta frutto di successive negoziazioni tra interessi, esigenze e sensibilità diverse e spesso conflittuali. La monumentalizzazione ha sollevato questioni da affrontare, perché ha creato un nuovo spazio là dove prima c’era semplicemente bosco. È soprattutto il piazzale, con il suo ambiguo carattere di luogo separato dal bosco e allo stesso tempo distinto dallo spazio strettamente devozionale, a porre i maggiori interrogativi. Che cosa si può fare nel piazzale? Negli anni si sono accumulati una serie di divieti e limitazioni – vietati l’accesso alle automobili, i pic-nic, giocare a pallone – e tuttavia il medesimo piazzale è stato eletto a sede “naturale” di eventi mondani come sfilate e serate di gala. Oggi è perciò possibile che, mentre nella chiesa si tiene una messa in commemorazione di un defunto, nel piazzale ci sia il soundcheck per un concerto. Ancora, come deve essere interpretato, dal punto di vista architettonico e funzionale, il piazzale? A oggi è poco più di un prodotto di risulta, un parcheggio dismesso, una colata di asfalto con pali e fili elettrici a vista. Cosa bisogna farne? Accentuarne il carattere monumentale, strizzando l’occhio al turismo? Farne una sorta di “piazza verde” che in qualche modo lo restituisca al suo luogo originario, il bosco? Oppure metterlo in continuità con lo spazio sacro del laghetto? Non c’è una risposta “giusta”: tutte queste opzioni sono in qualche modo invasive, impattanti, e hanno effetti sul carattere e le funzioni dell’intero sito, perché Santa Maria è contemporaneamente il luogo in cui risuona possente il silenzio della spiritualità certosina, il salotto buono di Serra e un’attrazione turistica coi trenini, i balocchi e i souvenir.

La retorica spicciola e la realtà stratificata nel tempo

Qualsiasi tentativo di risistemazione, insomma, appare insieme distorsivo e necessario. Per tirarci d’impaccio, ci aggrappiamo a un’immagine di Santa Maria “come è sempre stata” – immagine che però esiste solo perché scegliamo di ignorare che quel “come è sempre stata” è il risultato di interventi invasivi e “moderni”, alcuni dei quali oggi non fatichiamo a giudicare quantomeno inappropriati sul piano estetico e del tutto inaccettabili per gli attuali standard di accessibilità. Le linee curve che nel famigerato rendering hanno spaventato e indignato così tanto qualcuno sono in fondo coerenti con il leggero dislivello dell’area e con l’aprirsi sinuoso della scalinata, che in questo modo “sfocia” naturalmente nel piazzale, estendendo a quest’ultimo la funzione di accogliere e ospitare i visitatori, enfatizzando la centralità dello spazio sacro del laghetto e, nel congiungere la fontana con la strada laterale in basole di granito che costeggia il ruscello, includendo anche questi ultimi nel medesimo spazio monumentale. Poi, una soluzione di questo tipo può legittimamente piacere o non piacere, ma bisogna esser cauti nel giustificare un’avversione soggettiva chiamando in causa storia, tradizioni e senso dei luoghi. Ci pasciamo nella retorica dell’ “arte, natura e spiritualità”, delle “maestranze” e tendiamo a dimenticare che intervenire in una realtà fragile e complessa come Santa Maria è una faccenda dannatamente complicata, che ci sono esigenze, competenze e diritti che si confondono, iter legislativi tortuosi da seguire e, soprattutto, che quel che di Santa Maria oggi vediamo e viviamo non è “il sempre stato” ma una realtà fluida, in continuo divenire, risultato di scelte talvolta felici e talvolta controverse, invasive e irreversibili; di fattori esterni e di condizioni materiali; una realtà “artificiale”, insomma, stratificatasi nel tempo, sulla quale non solo si può ma si deve intervenire, confidando nei professionisti e nella regolarità procedurale delle assegnazioni, nella speranza che i lavori si facciano e si facciano bene, che si trovi un punto di equilibrio. Per il resto, poi, ben vengano le discussioni e le polemiche: dopo tutto, una comunità è davvero unita quando può permettersi di litigare.

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