Domenica, 03 Aprile 2022 11:36

Ospedali di montagna, a Roma si calpesta la Costituzione e qui si litiga sul nulla

Scritto da Sergio Pelaia
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In ogni dibattito pubblico, anche il più scadente, eventualmente scarso di contenuti e per quanto alterato da piccole ripicche personali e misere strumentalizzazioni politiche, c’è un elemento positivo. Si tratta di qualcosa di assimilabile al «purché se ne parli» che spesso, erroneamente, viene associato a qualunque cosa abbia a che fare con la ricerca di visibilità. Di ciò che ha a che fare con la salute, un diritto fondamentale garantito (in teoria) dalla Costituzione italiana, è dunque sempre bene che si parli. Nella stessa Costituzione, all’articolo 44, è tra l’altro scritto che «la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane».

Sana e robusta?

Ecco, partire proprio dalla Costituzione può essere un buon esercizio per provare ad arricchire questo dibattito fissando dei punti di fermi. Parliamo dunque degli «ospedali di montagna» che, in Calabria, secondo la classificazione adottata da oltre un decennio, sono quattro: Serra San Bruno, San Giovanni in Fiore, Acri e Soveria Mannelli. Come raccontato su I Calabresi un paio di mesi fa queste strutture sono, da molto tempo, in una montagna di guai. Il fatto, però, è che sui territori ci si accapiglia per questioni francamente insignificanti, e pure le provocazioni come quella che il Vizzarro ha fatto qualche settimana fa o non vengono capite (sicuramente per nostra scarsa capacità espositiva) o si tenta di distorcerle per interessi che niente hanno a che fare con il bene collettivo.

I paletti romani

Allora proviamo a inserire un elemento nuovo che è sostanziale e sta a monte, senza badare troppo alle scaramucce a valle dei politici locali che sempre, a seconda delle esigenze del momento, si vestono da incendiari o da pompieri. L’elemento potenzialmente nuovo è il decreto ministeriale che fissa gli standard dell’assistenza ospedaliera. La bozza del documento sta girando da un po’ (potete scaricarla dal link alla fine di questo articolo), se e quando verrà approvata, previo confronto con le Regioni, costituirà il perimetro entro cui si muoveranno “governatori” e commissari per organizzare la rete ospedaliera sui territori.

Cosa prevede la bozza

Intanto, come rilevato sul Corriere della Calabria dal giornalista Emiliano Morrone, rispetto al decreto ancora in vigore rimane inalterata la previsione di 3,7 posti letto per 1000 abitanti, così come rimane la classificazione degli ospedali in hub e spoke. Ci sono poi le disposizioni per i «presidi ospedalieri in zone particolarmente disagiate» che per essere tali devono essere «distanti più di 90 minuti dai centri hub o spoke di riferimento (o 60 minuti dai presidi di pronto soccorso)», così «superando i tempi previsti per un servizio di emergenza efficace». Questi standard saranno definiti «mediante l’utilizzo di specifica metodologia di rilevamento dei tempi di percorrenza, omogenea su tutto il territorio nazionale». La dotazione prevista per queste strutture è quella ormai nota: 20 posti letto di medicina generale, una chirurgia elettiva «di bassa complessità» (day surgery), un pronto soccorso «presidiato da organico incaricato di integrare l’emergenza-urgenza con il Dea di riferimento».

Le zone disagiate e i piccoli ospedali

Il paragrafo successivo della bozza di decreto parla poi nello specifico degli «ospedali di piccole dimensioni». Alla data di emanazione del provvedimento ministeriale, gli ospedali con pronto soccorso che non rientrano nella precedente definizione di «zona disagiata», che abbiano meno di 60 posti letto per acuti e meno di 20mila accessi all’anno al pronto soccorso, secondo il Ministero «dovranno essere oggetto di uno specifico piano di riorganizzazione volto alla conferma del presidio attraverso l’ottimizzazione del ruolo dello stesso nell’ambito del disegno di rete regionale, o la trasformazione in struttura territoriale (es. ospedale di comunità)».

Aperti o riconvertiti? 

Tradotto: se non rientrano negli standard di «zona disagiata» e non arrivano a questi numeri, si valuterà se questi piccoli ospedali debbano cessare di essere tali e quindi riconvertiti in strutture territoriali, o se invece «sulla base di esplicite e oggettive motivazioni regionali» verranno riconfermati. E in quest’ultimo caso dovranno essere previste «forme di integrazione» con gli ospedali più grandi «che permettano un’adeguata rotazione del personale per garantire il mantenimento dell’expertise necessaria all’erogazione in sicurezza delle cure».

L’Italia non è tutta uguale

La bozza di decreto, insomma, non porta buone nuove per i piccoli ospedali che si trovano in territori difficili come quelli montani calabresi. Tra l’altro si affidano ad Agenas (l’Agenzia governativa per i servizi sanitari regionali) determinate valutazioni dimenticando che l’Italia non è tutta uguale, che per un cittadino delle Serre o della Sila o del Reventino raggiungere i presidi sanitari è più complicato, specie in alcuni periodi dell’anno, rispetto a chi si trova in zone del Nord o del Centro con caratteristiche analoghe solo dal punto di vista geografico, ma non certo da quello infrastrutturale, economico e sociale.

Resteranno solo i ragionieri?

Nella regione più disastrata d’Italia certe previsioni ragionieristiche rischiano di rivelarsi nefaste. Il rischio è che quei pochi che sono rimasti nelle aree interne della Calabria, se ne hanno la possibilità, se ne andranno altrove, per curarsi o addirittura per vivere. E chi resta soffocherà nell’indifferenza di chi prende le decisioni che contano e nell’insipienza di una politica locale che evidentemente pensa ad altro, si accontenta di promesse e palliativi e non si unisce, davvero, sia all’interno dei singoli territori che all’esterno con chi si trova nelle medesime condizioni. Quella di cui parliamo è una bozza soggetta a modifiche, ma se non si lotta affinché si cambi quel decreto, il vecchio o il nuovo che sia, non ne usciremo mai.

Il Palazzo e le periferie

Allora ben vengano il dibattito e i buoni propositi, purché siano connessi alla realtà. Se pochissimi operatori sanitari vogliono lavorare in questi ospedali – giusto per fissare il problema dei problemi – è perché negli anni si è pensato più a garantire i pochi a discapito dei molti che a rendere sicure le strutture sia per gli utenti che per chi ci dovrebbe lavorare. E se si è creato un evidente, enorme vuoto politico tra la gente e gli unici che sulla sanità contano qualcosa (i commissari/governatori di turno e gli alti burocrati ministeriali) qualche responsabilità la politica locale, di ieri e di oggi, ce l’avrà. Ora si possono anche mettere da parte le colpe del passato e quelle del presente, ma non si può proprio continuare a litigare sul nulla e a difendere interessi particolari. Perché i diritti costituzionali delle popolazioni di montagna sono ormai da troppo tempo calpestati. E nel frattempo a Roma si continua a decidere delle vite nostre e dei nostri figli con la calcolatrice in mano.

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