Lunedì, 24 Aprile 2023 07:09

Sbandati, emigrati e compaesani. I meridionali e la lotta partigiana

Scritto da Francesco Barreca
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Giulio Nicoletta (a destra) ed Ettore Serafino Giulio Nicoletta (a destra) ed Ettore Serafino

Per mettere a fuoco il coinvolgimento dei meridionali nel movimento partigiano è necessario, in primo luogo, avere chiaro il significato delle qualifiche che le Commissioni regionali, a partire dal 1945, riconobbero ai partecipanti alla guerra di Liberazione. La qualifica, infatti, è in molti casi l’unica informazione di cui disponiamo riguardante l’attività effettiva di un partigiano. La più importante, quella di Partigiano Combattente, che certifica un pieno coinvolgimento nella lotta, è riconosciuta a chi ha militato per almeno tre mesi (sei nel caso di militanza nelle SAP) nelle formazioni armate partigiane inquadrate nel Comitato di Liberazione Nazionale, ai decorati al valore per attività partigiana, ai feriti nel corso di azioni militari partigiane, a chi si è distinto per azioni di particolare valore e a chi è rimasto in carcere, al confino o in campo di concentramento per oltre tre mesi a causa di un coinvolgimento con i partigiani. A coloro i quali, pur avendo partecipato alla lotta di Liberazione, hanno militato in formazioni armate per un periodo inferiore a tre mesi è invece riconosciuta la qualifica di Patriota. È bene sottolineare che ciò non significa che i Patrioti furono partigiani per meno di tre mesi, ma solo che presero effettivamente parte alla lotta armata per meno di tre mesi: quanti collaborarono con le bande partigiane offrendo loro supporto logistico, medico ecc. ma parteciparono alla lotta armata sporadicamente o per brevi periodi sono riconosciuti Patrioti. La qualifica di Benemerito, rilasciata solo dalle commissioni Piemontese e del Triveneto, è assegnata invece a chi fornì supporto ai partigiani ma non partecipò mai alla lotta armata. Infine, vi sono due qualifiche – Caduto e Mutilato/Invalido – riconosciute a chi, appunto, è deceduto o rimasto gravemente ferito nel corso della lotta partigiana, indipendentemente dalla durata e dalla natura della militanza. Ciò vuol dire che è riconosciuto come Caduto sia chi è stato fucilato per aver aiutato un partigiano, magari semplicemente dandogli rifugio in un fienile per una notte, sia chi è deceduto in un’azione di guerriglia vera e propria, sia chi ebbe la sfortuna di essere giustiziato in seguito a un rastrellamento sommario pur non avendo un coinvolgimento con le formazioni partigiane. Per questo, l’essere qualificato come Caduto spesso rappresenta, in assenza di altre informazioni, un ostacolo per discriminare tra Partigiani Combattenti, Patrioti e Benemeriti. Giulivo Valente, di cui abbiamo scritto nel primo di questa serie di articoli, è qualificato come Caduto in quanto morì in seguito alle ferite inflittegli da elementi nazifascisti, ma non sappiamo per quanto tempo partecipò alla lotta armata. Certamente egli partecipò ai moti torinesi di fine aprile tra le file delle SAP, e dal momento che l'affiliazione alle SAP richiedeva almeno cinque mesi di partecipazione alla lotta armata, possiamo dire con relativa sicurezza che, se fosse sopravvissuto, gli sarebbe stata riconosciuta la qualifica di Patriota.

La partecipazione dei meridionali alla lotta di liberazione nel Nord Italia è cosa nota. Nel romanzo di Beppe Fenoglio Il Partigiano Johnny, i primi partigiani incontrati dal protagonista sono tre militari “con un accento così disperatamente siciliano […] che Johnny se ne risentì, stupì ed accorò incredibilmente.” Ne Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino sono rappresentati quattro fratelli calabresi, i quali avevano sposato quattro sorelle, che in virtù del legame parentale, del dialetto e di un codice di comportamento apparentemente indecifrabile di fatto costituivano una banda a sé. I meridionali descritti da Fenoglio e Calvino sono i cosiddetti “sbandati”: militari che, con il disfacimento dei quadri di comando delle forze armate italiane successivo all’armistizio e posti di fronte all’eventualità di essere deportati dai tedeschi come “internati militari” o di essere arruolati nelle milizie della Repubblica Sociale Italiana, decidono di darsi alla macchia (il termine "sbandato" non ha, nel presente contesto, connotazioni morali). Sebbene a sbandare non siano solo i meridionali, nel loro caso il fenomeno assume dimensioni rilevanti e caratteristiche particolari. Con il consolidamento del fronte prima sulla linea Gustav e poi su quella Gotica, infatti, raggiungere il profondo Sud diventa un’impresa impossibile, cosicché molti sono quasi costretti a “sbandare”. Inoltre, trovandosi al Nord, in un mondo sostanzialmente sconosciuto, senza mezzi, senza appoggi, in una condizione giuridica simile a quella degli odierni immigrati irregolari, i meridionali, e specialmente i soldati semplici, tendono a sbandare in gruppi. Per molti di loro si tratta semplicemente di continuare la vita militare, combattendo però ora un nemico diverso. A prendere la decisione di sbandare sono, di solito, gli ufficiali inferiori dei reparti periferici: sottotenenti, tenenti e capitani, per i quali i tedeschi non hanno l’occhio di riguardo che invece hanno per gli ufficiali superiori. Da questo punto di vista essi si ritrovano di fatto nelle stesse condizioni della truppa. Tuttavia, per loro è relativamente facile radunare un gruppo armato di soldati, darsi alla macchia e cercare, come prima mossa, di mettersi in contatto con i gruppi partigiani locali.

La commistione degli sbandati – e degli sbandati meridionali in particolare – nella lotta partigiana è un processo ambiguo e sfuggente. Se, da un lato, vi è nella partecipazione alla causa partigiana una non trascurabile componente opportunistica, dall’altro alla base della decisione c’è una base ideologica fatta di patriottismo e spesso contraddittorio antifascismo. Sono eloquenti, in tal senso, le parole del partigiano crotonese Giulio Nicoletta, sottotenente carrista a Beinasco, il quale, dopo l’armistizio, raduna un gruppo di uomini e si rifugia nella Val Sangone, dove, a quanto aveva potuto apprendere, operavano sia lo sbandato abruzzese Luigi Milano, un maggiore abruzzese che all’indomani dell’armistizio si era rifugiato con i suoi a Giaveno, che il partigiano piemontese Eugenio Fassino a capo di una divisione della brigata Garibaldi: 

Io sono stato balilla, avanguardista, premilitare: credevo che il fascismo fosse lo Stato, non una fazione...A scuola non avevo insegnanti antifascisti, come hanno avuto molti miei compagni partigiani... Quindi sono arrivato fino al 25 luglio 1943 con opinioni sulla situazione politica molto contraddittorie e incerte. Ero un meridionale in Piemonte in quell’estate del 1943, preoccupato di capire la società locale più che di analizzare il senso degli avvenimenti. Ho vissuto i 45 giorni del governo Badoglio cercando di assorbire quante più notizie era possibile sia dalla stampa, sia dalla popolazione. Credo che in quei 45 giorni, contrariamente a tutto il giudizio negativo che si dà del governo Badoglio, quel poco di libertà, che c’era nella stampa e nelle manifestazioni di condanna del fascismo da parte della popolazione, abbia dato elementi sufficienti per capire e per decidere all’8 settembre 1943. E tuttavia, all’8 settembre io piansi. Era chiaro che uscivamo sconfitti e screditati di fronte a tutti i popoli della terra. Quale immane tragedia! ...Ho assistito alla resa di Torino, senza nemmeno accorgermene! Una squallida resa, senza dignità, da vigliacchi... Con il mio fratello volevamo organizzare bande armate in pianura, lavorando di giorno e attaccando la notte. Ma ci eravamo presto convinti che in quella prima fase la pianura non era adatta. Dalla zona Villarbasse-Bruino, dove con un carro agricolo ci eravamo spostati con le armi prese a Beinasco, proseguimmo verso Giaveno dove ci era stato detto che c’era un maggiore degli alpini con un battaglione. Il maggiore era Milano, già comandante del “Val Chisone”; c’era Fassino di Avigliana; c’erano due miei colleghi di reggimento arrivati con tre carri armati. Mi tolsi la divisa da ufficiale e iniziai a fare il guerrigliero... La mia educazione politica avvenne durante la Resistenza, fra un combattimento e l’altro.

Il fatto che gli sbandati come Nicoletta fossero non solo militari in cerca di rifugio ma anche e soprattutto meridionali al Nord tende a essere sottovalutato, quando in realtà si tratta di un fattore decisivo per comprendere il loro coinvolgimento nella Resistenza e per collocare nel giusto contesto storie come quella di Giulivo Valente. La comparsa degli sbandati meridionali ebbe infatti effetti profondi non solo sulla composizione delle bande partigiane ma anche su quella della rete di supporto al movimento. Da una parte l’azione antifascista si innestò sui legami interni delle comunità di emigrati, riconfigurandoli in senso antifascista; dall’altro, quei medesimi legami tradizionali si diffusero nel movimento partigiano, influenzandone il profilo. Significativo, a quest’ultimo riguardo, è il caso del sottotenente Federico Tallarico (Frico) di Marcedusa (CZ). Al momento dell’Armistizio, Tallarico è di stanza a Torino, dove viene raggiunto dal fratello Antonio (Capitano Frico), tenente del Genio di ritorno dalla Croazia. I due Tallarico, insieme a un gruppo di soldati del reparto di Federico, si danno alla macchia. Quando vengono a sapere che in Val Sangone Giulio Nicoletta e suo fratello Franco stanno organizzando delle bande armate, decidono di dirigersi in quella zona per prendere contatti coi loro “compaesani.” Da questa collaborazione nascono diverse bande autonome caratterizzate da un’organizzazione prettamente militare che sarà motivo di tensione con brigate politiche come la Matteotti e la Garibaldi. Di una di queste bande autonome faceva parte Biagio Lipari, sbandato di Chiaravalle Centrale, che fu catturato dai tedeschi a Forno di Coazze nel corso di un rastrellamento e fucilato, dopo alcuni giorni di prigionia, il 16 maggio 1944. 

Quando pienamente integrati nelle bande partigiane, i calabresi e i meridionali in genere tendono comunque a formare, proprio come osservato da Calvino, dei gruppi particolari basati sulla parentela, sulla compaesanità o sull’amicizia maturata negli anni. Per i soldati semplici, infatti, la decisione di unirsi ai partigiani raramente è individuale: in genere essi si legano a un ufficiale oppure a qualche compagno d’armi, e nel momento in cui uno sbandato o un emigrato si unisce alle bande partigiane può facilmente innescarsi un processo che si diffonde, lungo la rete dei suoi contatti, tra amici, parenti e conoscenti. In primo luogo, ovviamente, a essere coinvolti sono i parenti prossimi e gli amici. Essere raggiunti dai fratelli è, soprattutto per gli ufficiali, il primo passo per la costituzione di un gruppo armato con migliore potere di contrattazione al momento di aggregarsi a una formazione partigiana preesistente. Oltre ai già menzionati fratelli Nicoletta di Crotone e ai Tallarico di Marcedusa (ai quali si unì in seguito anche la sorella Caterina col nome di battaglia di DR Nina Frico), vanno ricordati i serresi Gabriele, Raffaele e Giacomo Barillari. Il primo a unirsi ai partigiani, nel settembre 1943, è Raffaele,  nato nel 1918, figlio di Bruno; un mese dopo, all’età di trentuno anni, lo raggiunge Gabriele, figlio di Arcangelo, sergente maggiore di artiglieria; purtroppo non abbiamo notizie in merito all’arruolamento del fratello minore di Raffaele, Giacomo, che nel 1943 aveva ventitré anni. Meritano qui una menzione anche i tropeani Antonio, Maria e Bice Di Tocco (Nino, Prima e Beba), nati in Calabria e poi emigrati a Torino: Antonio, il fratello minore, si unisce ai partigiani nel gennaio del 1944, a soli sedici anni, quando è ancora studente; a ottobre lo seguono la sorella Maria, che di anni ne ha diciannove ed è anche lei studentessa, e la ventiduenne Bice, che invece fa la casalinga. A tutti e tre è oggi riconosciuta la qualifica di Partigiano Combattente. (2/continua)

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