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Martedì, 27 Marzo 2012 20:18

Mastro Bruno Barillari (Tarcelli), figlio dell'arte serrese

Scritto da Sergio Gambino
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mini mastro_bruno_tarcelliDalla Chiesa dell’Addolorata  a San Giluormu. Salendo dapprima dallo “stradone” di Via Sette Dolori, dove sulla destra trovo la casa dell’infanzia di mio Padre, la famosa casa dal pavimento di tavole tra le quali fessure Mastru Biasi accendeva la sua pipa, segno del via libera al dopocena, e Sharo  giovanotto, scendeva con i suoi fratelli ad ascoltare li “stuori” che il loro ospite dispensava intorno al braciere ardente.  Guardo la stanza e mi sembra, tale l’enfasi con la quale questi fatti mi sono stati raccontati, di rivivere quei momenti  nell’immaginazione di un bimbo preso per mano a cui queste cose venivano raccontate con la poesia delle parole che solo il Sharo papà sapeva esprimere.

E ancora avanti, dopo il negozio di alimentari di Ernesta, dove ci avevi “la libretta”, e poi, quando è fine mese che la ditta paga mio marito passo a pagare, e poi avanti la casa di Mastro Peppe “Stivaledha”, la cantina quasi di fronte, e poi Bonsignuri

, la fontana dell’acqua fresca dell’estate che prima dell’arrivo dei galli in Calabria era un piacere bere, e li tavuluni di fagu di Mastru Franciscu , che sarebbero diventati culle per il pane, nelle meglio conosciute spoglie di “maghjidha”. E poi avanti il negozio dalle mille sorprese di Grillo. Quello dei gelati infornati, dei palloni, delle liquirizie, un emporio del’ottocento sempre pieno di bambini.  Gli ultimi scampoli di vita del centro storico di terravecchia, caldo dei rossi del mais messo sulle lenzuola a terra ad essiccare in settembre, ai pomodori, ai funghi, di quella nobile povertà che ancora dimostrava il ricco passato di un territorio come le Serre. Lustro delle Calabrie. E ancora guardarsi intorno per intuire dei particolari architettonici e decorativi delle case, un gusto, spesso barocco o classico a volte, di una squisitezza più unica che rara.

Tutti a Serra sapevano fare qualcosa, e le ragazze andavano dalla “Maistra” a cucito, e i ragazzi allu mastru. Questo ancora lo ricordo chiaramente io fino al 1980 circa. Trent’anni fa. La passione per la mastranza serrese non poteva che far intrecciare il mio destino con Bruno Barillari. Mastro Bruno Tarcelli. Figlio di Nazzareno anche lui falegname, e padre di Nazzareno, che non contraddice il detto “buon sangue non mente”.  Ora Mastro Bruno ha una gran voglia di raccontare ed io, che ho una gran voglia di ascoltare, passo spesso per vederlo all’opera ed intanto ascoltarlo. Barillari. Cognome storico di Serra san Bruno, che ha certamente avuto poi decine di diramazioni. La famiglia Barillari era rinomata  per le numerose opere di scultura, intaglio e incisione, per le opere di stucco realizzate in molte chiese della Calabria meridionale e per pregevoli intagli lignei di basi processionali, stalli ed oggetti di pertinenza ecclesiastica. Sono notevoli anche i lavori eseguiti presso la fabbrica d'armi di Mongiana, dove si erano fatti notare per la damaschinatura sulle canne dei fucili da caccia.

Come dicevamo prima, buon sangue non mente e Mastro Bruno oltre che un ottimo ebanista è anche grande intagliatore del legno.  Grande conoscitore della tradizione ebanista serrese della quale ancora conserva i segreti e gli aneddoti.  Il suo ricordo del centro storico è per me un sogno, e per ogni porta ricorda l’artigiano e le sue specialità, i suoi aneddoti. La proverbiale ironia serrese,  di cui Mastro Bruno Pelaggi  fu  grande divulgatore, circola nelle vene di Mastro Bruno Barillari come se l’appartenenza a questo popolo ce l’avesse scritta nel DNA. E ride e si commuove quando racconta della sua Serra, delle orchestrine, del divertirsi in modo semplice ed ingenuo, del rispetto, delle tradizioni, di suo padre e del suo mestiere, ed intanto le sue mani con una conoscenza delle cose, dell’essenza, degli attrezzi di centinaia di anni, lavorano quasi distrattamente, quasi che in una sua bicameralità possa parlare con me emozionandomi ed intanto correggere quei pezzi di legno che gli porto per imparare qualcosa da lui.

Mi parla della grande amicizia avuta sempre “culli Gambinu”, e della stima e di Fischia il Sasso e di quando un giovane cronista serrese scrisse di un’anziana signora che buttò via tutti i suoi risparmi dentro il pagliericcio, e poi ricordatosene in tempo riuscì a recuperarli con una semplice asciugatura. Che tempi quelli. La lezione di territorialità di economia locale anti globalizzazione, di ritorno alle origini come unica via d’uscita a questo sistema, me l’ha data in poche parole. Facendomi capire il senso di micro comunità e di collaborazione, meglio di un economista.  Ora io chiedo a chi mi legge: Mastro Bruno non è forse un personaggio illustre di serra san bruno, non sarebbe più corretto pensare a sfruttare i suoi saperi piuttosto che lasciare inutilizzato un patrimonio della collettività?

Concludo il mio pensiero su Mastro Bruno con uno degli aneddoti che mi ha raccontato.

Un falegname in punto di morte, durante l’estrema unzione viene così apostrofato dal prete: “Figlio mio perdona chi ti ha fatto del male e chiedi perdono per i peccati che hai fatto”. “Padre – risponde il falegname – io perdono tutti, tranne uno, allu gruppu di l’abitu, non lu pirdugnu”. Non lo perdonò, per tutte le imprecazioni che durante la vita gli aveva procurato, non ce la fece a perdonarlo.

Spero che quest’omaggio a Mastro Bruno possa essere di sprono a quanti hanno il dovere morale di conservare il ricordo della nostra tradizione culturale, di valorizzare la figura della mastranza della Serra, che trova ancora nei suoi figli diretti la dimostrazione dello splendore artistico nato dentro e fuori le mura della Certosa. 

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