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Giovedì, 28 Febbraio 2013 15:49

Massimo Lampasi. Una storia sbagliata

Scritto da Sergio Gambino
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mini lampasi_radunoAncora una volta Serra San Bruno piomba nel baratro della paura, dello sconosciuto, del mistero. Un altro ragazzo è sparito, un ragazzo di venticinque anni. Che Massimo sia (preferisco parlarne ancora al presente) un ragazzo difficile, questo è fuori di dubbio, però non vanno dimenticate in primis la sua condizione familiare, che ha dimezzato i suoi affetti, e reso debole lui e la restante parte della sua famiglia, composta tra l’altro da gente perbene e onesti lavoratori. Massimo, prima che di se stesso e delle sue scelte di vita sbagliate, è una vittima dell’abbandono della società. Vittima di quel substrato culturale mafioso, di esaltazione del male e della criminalità, che siamo costretti a subire.

Massimo è vittima dell’indifferenza, vittima di uno Stato in cui i servizi sociali non esistono, dove chi è alla deriva viene ulteriormente emarginato e etichettato per sempre. Magari, addirittura, quasi gioendo della scomparsa di questo ragazzino, perché probabile “teppistello”. “Se lo è meritato” qualcuno dice in giro, oppure “si sapeva che avrebbe fatto questa fine…”. Pochissime, se non da parte dei familiari, le parole d’affetto, di conforto e di solidarietà. Una società incattivita. Ricordo ancora come la stampa locale raccontava la cattura di Massimo dopo la sua breve “latitanza”, vissuta, tra parentesi, in un cantiere di Melfi dove io (naturalmente all’oscuro del fatto che fosse ricercato) me lo ero portato cercando di trovargli una sistemazione. Un lavoro. Non ci sono riuscito.

Ieri, in quella casa di tre metri quadri, dove lo attendono due bambine (una è la moglie di diciannove anni e una è la figlia di cinque mesi), vedevo accanto ad una immensa statua di San Michele Arcangelo (tipica della simbologia di ‘ndrangheta), la sua zampogna. Quella che gli hanno regalato i suoi parenti, i suoi zii, che non lo hanno mai abbandonato o lasciato solo. Nella foto Massimo è con l’Associazione Il Brigante al raduno delle zampogne organizzato in onore di suo nonno, “Brunu lu nigaru”. Migliaia di ramanzine, di tirate di orecchie e qualche sonoro ceffone: niente. Quella statua, che rappresenta (per chi ne fa parte) la mafia, accanto alla probabile vita che avrebbe potuto avere, magari, se Pino, suo fratello (morto di tumore a trent’anni) gli fosse stato vicino, o se sua Madre non fosse morta dello stesso male, se suo padre non si fosse “rifugiato” nell’alcool. Un’altra vittima della mentalità perbenista, della cultura dell’emarginazione violenta e della segregazione in caste o ceti o classi  sociali. Una società  forcaiola e giustizialista che condanna e mette ai margini. Mi vengono in mente le parole di Fabrizio De Andrè, parole vuote se cantate con gli amici o ascoltate superficialmente, ma che descrivono molto bene quello che vorrei dire.

“Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni più le spese
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo”.

Spero che Massimo sia ancora vivo, e che ne abbia combinata un’altra delle sue. Spero che torni a casa dalla sua famiglia che lo piange disperato. C’è bisogno anzitutto di una diversa impostazione della società, che non sia volta all’individualismo e alla negazione dei diritti di una vita normale. Una società che corre all’impazzata e lascia dietro i deboli e gli ultimi, rigirandosi ogni tanto per guardare e giudicare. Odio i luoghi comuni, chi giudica, chi si sente estraneo a queste cose e poi fa la morale. Odio uno stato che scarcera “Batman” dopo un mese per aver rubato milioni e condanna “a cinquemila anni” un povero disgraziato. Odio uno Stato che non concede nessuna forma di assistenza sociale ai disagiati e li lascia in balia della malavita e della barbarie. Nessun appello, perché se qualcuno gli ha fatto del male, se ne sbatte del mio pensiero e delle mie considerazioni. Non voglio neanche ergermi a giudice e cercare dove sia il torto e dove sia la ragione. Mi sento in prima persona moralmente responsabile della scomparsa di Massimo, perché avrei dovuto evidentemente fare di più. Parafrasando ancora Faber, concludo questo sfogo con altre sue parole: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.

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