Lunedì, 25 Dicembre 2023 08:06

“Chi belli fiesti e chi belli Natali”. Filastrocche e canti per la nascita di Gesù

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Foto di Salvatore Costa Foto di Salvatore Costa

Nuvole di parole, cantate, recitate a mo’ di filastrocca, fatte passare di bocca in bocca, per questo Natale 2023. Una volta tanto, non una “nuvola di carta”, per quanto ce ne siano infinite in ogni Natale a dirlo e raccontarlo, magari rimpiangendo i Natali passati e imprecando verso quelli attuali che si fanno cominciare (se va bene) già ai primi di novembre, con la fiera televisiva dei panettoni e dei pandori e le luminarie per le strade subito dopo i morti, così, signora mia, l’atmosfera va presto a farsi friggere e quando Natale poi arriva davvero è come se fosse già trascorso e addio magia, addio fascino dei riti.

“Sant’Andria porta la nova”

Mentre una volta, una volta si aspettava che arrivasse almeno la fine di novembre per il preannuncio del Natale, con Sant’Andrea che inaugurava la serie dei santi che anticipano l’Avvento: “Sant’Andria porta la nova / Lu quattru è di Varvara / Lu sie è di Nicola / L’uottu è di Maria / Lu tridici è di Lucia / Lu vinticincu di lu veru Misia”. E qui ci sarebbe pure da dire del ruolo di San Nicola e di Santa Lucia in questa serie, con San Nicola - capostipite della linea che da Santa Claus conduce a Babbo Natale - per più versi associato ai bambini, perché è un santo che nella tradizione agiografica porta doni e dolciumi e perché dei fanciulli è anche un salvatore visto che recupera alla vita i tre piccoli messi nella salamoia da un macellaio crudele, che li aveva conservati per cibarsene (inciso: a San Nicola, come a Babbo Natale, si scrivono letterine, che si lasciano sul tavolo per trovare il giorno dopo mandarini, biscotti e cioccolato, tranne che per i bambini discoli a cui tocca l’inevitabile pezzo di carbone). E da parte sua Santa Lucia non soltanto era preannuncio di Natale, ma, per la sua coincidenza nel calendario Giuliano con il solstizio d’inverno, era anche il giorno più corto dell’anno e un proverbio locale dichiarava “Di Santa Lucia / Nu passu di pujia”, un “passo di gallina” che da quel giorno faceva cominciare il lento prolungarsi del dì che sarebbe durato sino al solstizio d’estate. Sant’Andrea “porta la nova”, ma Santa Lucia (nomen omen) porta la luce.

“Mbombinuzzu di dhuocu avanti”

Pura poesia, anonima, trasmessa per sola tradizione orale, è quella che si ritrova in un canto popolare, molto diffuso nell’area delle Serre, in cui l’anima gioca un ruolo fondamentale e diventa ricovero e quasi culla per Gesù bambino, ma cerca anche, a sua volta, rifugio nel puer divino e vi trova consolazione per i suoi affanni: “Mbombinuzzu di duochu avanti / Vienitindi alla casa mia / Mu t’accuonzu nu lietticiedhu / ‘Ntra sta povera anima mia. / Anima mia non stari cumpusa / Ca Gisù ti vo pi spusa / E ti ama e ti guverna / E ti duna la gioia eterna”. Mentre nell’esordio del canto Gesù era stato esortato a recarsi in piazza, per rendere fertile e fiorito con l’impronta della sua orma lo spazio abitato dagli uomini: “Mbombinuzzu niesci all’abballu / Ca lu chianu è tuttu lu tue / Duvi puosi lu tue peduzziedhu / Nescia lu gigghiu e vasilicò”. E però il medesimo canto che aveva presentato la felicità della nascita del Bambino, la tenerezza dolce del suo ostello nel lettuccio dentro l’anima, il conforto che a quest’anima offriva lo “sposalizio” con Gesù, la levità gioiosa dell’abballu, si chiudeva con un annuncio della Passione, inaspettatamente introdotto dopo i primi due versi della quartina che non lascerebbero certo presagire il terribile dramma conclusivo: “Mbombinuzzu vattindi alla scola / La mamma ti chiama e la Missa ti sona / Trentatrianni curuna di spini / Chiova e catini l’amatu Gisù”. Ultimi due versi che spezzano la delicatezza felice e incantata dei primi quattordici e che collegano la nascita alla morte in maniera persino eccentrica rispetto all’aura natalizia del resto del componimento. Quanto più totalmente intrisi di gioia dall’inizio alla fine sono il gioco reiterato delle parole, la ripetizione ricercata dello stesso termine, la concatenazione di un verso con il successivo mediante la ripresa dello stesso elemento o della medesima azione, che incontriamo in un altro canto, da leggere e gustare tutto insieme, a partire dalla straordinaria onomatopea dell’incipit: “Mbè, mbè, mbè / Tutti li pecuri su li me/ E lu latti è di la crapa / E l’ammiendula mundata / E l’aciedhi cantaturi / Vanno cantandu a tutti l’uri / E l’uri di San Gianni / la Madonna culli panni / E li panni e li pannizzi / La Madonna culli trizzi / E li trizzi ‘ncannuliedhu / La Madonna e lu Mbombiniedhu”. Immersione nella felicità della rima, incanto che nasce dalla semplice associazione delle immagini, libero dalla ricerca di senso, dalla sottomissione a un significato e che sfocia, alla fine, in quella superba raffigurazione della Madonna con le trecce, prima di ricongiungersi in un fermo-scena, come in un quadro rinascimentale, con il figlio da poco nato. Con due varianti degne di nota nei due versi finali: “E li trizzi cannola cannola / La Madonna di Portagghiola” (la prima variante); “E li trizzi ‘ncannuliedhu / Jienu circandu lu Mbombiniedhu” (la seconda). E con un particolare non secondario, perché questi canti natalizi, intonati per celebrare la nascita del Bambinello, negli altri periodi dell’anno diventano altra cosa: nenie, ninna nanna con le quali i genitori cullano i bambini piccoli, un tenero cantare che li accompagna verso il sonno.

“Atra cosa non avìa, pi purtari a bui Misia”

Sembra quasi un presepe la scena che si rappresenta in un ulteriore canto, un presepe in cui è come se i personaggi-pastori entrassero uno a uno ed entrando si presentassero, identificandosi con il proprio mestiere e offrendo ciascuno un dono. Ed è forse per questo che in tale scena manca la figura del meravigghiato, il personaggio immobilizzato per sempre nella propria stupefazione dinanzi all’evento della rivelazione al mondo di Gesù bambino. Il meravigghiato non porta doni, non ha nulla da offrire al celeste neonato, se non il proprio sguardo incantato, bloccato indefinitamente verso un punto - lo spazio della grotta nella quale tutto si è compiuto - che da solo basta a dare ragione della sua presenza istolidita, muta, come sempre accade di fronte all’apparizione del numinoso. Gli altri, invece, con il loro dono in mano, si affacciano sulla scena e ognuno di questi doni è il risultato del loro lavoro, com’è normale in una società in cui si dona ciò che si ha e che, però, anche si avverte come sommamente prezioso proprio perché è l’unica cosa che si possiede. Il più prezioso, in una civiltà di contadini, pastori e cacciatori, non è quell’altra cosa – come dice chiaramente il canto – che non si ha (e che nemmeno si potrebbe avere), non è il più costoso e che neppure volendo si potrebbe acquistare, bensì quello che è necessario per sé e che, se donato ad altri, è anche ciò di cui ci si priva. In questo è assolutamente prezioso, perché si toglie a sé stessi per donare. Eccolo, allora, questo presepe cantato: “Io su nu poveru zzappaturi / E na bona raccorta fici / E a bui Signuri caru / Puortu nu tuminu di ranu. / Atra cosa non avìa / pi purtari a bui Misia. / Io su nu poveru mulinaru / Macinai di stamatina / Ed a bui Signuri caru / Puortu nu puocu di farina. / Atra cosa non avìa / pi purtari a bui Misia. / Io su nu poveru cacciaturi / E na bona caccia fici / Puortu a bui grandi Signuri / chisti dudici pirnici. / Atra cosa non avìa / pi purtari a bui Misia. / Io su nu poveru piscaturi / E na bona pisca fici / Puortu a bui grandi Signuri / chista cista di sardi e alici. / Atra cosa non avìa / pi purtari a bui Misia. / Io su nu poveru piecuraru / E na bona quagghiata fici / E a chista mamma bella / nci purtai na ricuttella. / Atra cosa non avìa / pi purtari a bui Misia. / Io su nu poveru massariedhu / E non ebbi chi purtari / E a bui Signuri caru /suonu chistu fischiuttiedhu. / Atra cosa non avìa / pi purtari a bui Misia”. Così che, alla fine, anche il suono, se non si possiede altro che uno strumento rudimentale e il proprio fiato, è un dono, anch’esso di assoluta preziosità, perché è pure per suo tramite che si intona la melodia dell’uomo e del creato per colui che è nato.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

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