Martedì, 16 Febbraio 2021 08:28

Il carnevale e la maschera del “vecchio”, un'usanza teatrale ma senza radici

Scritto da Bruno Greco
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Foto di Biagio Tassone Foto di Biagio Tassone

Camminano in gruppo, “minacciosi”, celati dietro maschere mostruose o asettiche. I gesti rappresentano il loro principale mezzo di comunicazione per un motivo ben preciso: se parlassero potrebbero essere riconosciuti. I loro vestiti sono quelli tipici del contadino, pantaloni in velluto, giacche pesanti, camicie in lana o flanella, stivali ma anche tute e abbigliamento improvvisato, molto probabilmente relegato da tempo negli armadi prima di essere destinato alla spazzatura. Un bastone fa da sostegno all’andatura già precaria e claudicante, fino a quando, con una caduta tattica, finisce ai piedi di qualche passante a mo’ di scherzo ma soprattutto per suscitare spavento e alimentare ancora di più quell’alone di mistero intorno alla sua figura. Mistero che si fa più interessante quando queste particolari maschere si sfidano tra loro, minacciandosi col bastone per imporre una sorta di supremazia, personale o di gruppo, ma senza mai ricorrere alla violenza, fino a quando chi cede si allontana in cerca di altre “prede” da intimorire. Se un adulto gli chiede «da cosa ti sei vestito?», lui risponde «da vecchio!».

L’idea di raccontare questo singolare travestimento, presente in alcuni comuni del Vibonese, dietro il quale tanti ragazzi nel periodo preadolescenziale si sono celati, è nata dopo aver visto gli scatti del fotografo Biagio Tassone. Il suo è un reportage (vedi la gallery in basso) realizzato tra Soriano Calabro e Serra San Bruno, negli anni 2015-2016. Immortala una maschera che, nonostante l’aspetto teatrale, non sembra legata al passato o alle antiche farse carnevalesche ma piuttosto a una “moda” nata di recente, ossia da un ventennio o poco più. Orde di ragazzi si precipitano per le vie del paese, come tanti spaventapasseri, senza seguire nessun codice nell’abbigliamento, ma riconoscendosi comunque in un gruppo di quartiere o di amici, con la sola regola di spaventare e non farsi conoscere dagli altri. Ma arriva spesso il momento in cui un “vecchio” riconosce qualcuno che non appartiene al proprio gruppo. Così lo scoperto impone subito l’imperativo, con tanto di indice adagiato sul naso: «Non dire a nessuno chi sono!». Rivelato il volto dietro la maschera finirebbe il gioco e il ruolo perderebbe di credibilità, tant’è che qualcuno, per riacquisire il proprio anonimato, corre ai ripari vestendo altri panni vecchi e indossando una nuova maschera. Solo così può tornare a mettere paura, rientrando nei confini di quel dogma che era stato perduto. In molti paesi, anche in mancanza dei tradizionali carri che un tempo venivano organizzati da associazioni o gruppi spontanei del luogo, i ragazzi che vestono i panni del “vecchio” sono diventati la vera attrazione del carnevale, l’anima della festa. Si mostra in loro quel meccanismo di protesta contro gli adulti, o gli sconosciuti, che non potrebbero permettersi in altri contesti. Proprio come un tempo la classe subalterna durante i giorni del carnevale si faceva “beffe” perfino dei padroni, approfittando di una breve parentesi di libertà che solo in quei giorni veniva concessa. D’altronde, a carnevale ogni scherzo vale.

Ma perché dei ragazzi che potrebbero identificarsi in delle maschere tradizionali, pur capaci di nascondere la propria identità, scelgono dei vecchi vestiti? Esiste qualcosa di profondo in questa scelta? Per comprendere se il fenomeno possa avere radici lontane, abbiamo provato a porgere qualche domanda al professor Giovanni Sole, docente di Storia delle tradizioni popolari presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università della Calabria, che nel 1998 col suo libro “Belli e brutti. Apollineo e dionisiaco ad Alessandria del Carretto” si occupò delle maschere di quel territorio. «Dal mio punto di vista – ha detto Sole al Vizzarro – penso che sia sbagliato cercare sempre dei significati profondi in alcuni comportamenti o ritualità. Nella maggior parte dei casi non esistono. Nel mio ultimo libro, “Caducità dell’Antropologia”, tengo a precisare questo aspetto. Pur affondando le radici in tempi remoti, alcune culture resistono all’usura del tempo ma ogni generazione le rielabora adattandole alla propria epoca. Riti e credenze sono incessantemente soggetti ad interpretazioni e variazioni: adeguandosi alle diverse strutture economiche e sociali, assumono forme e contenuti in relazione ad ansie e bisogni ai quali gli uomini devono far fronte». Per il professor Sole il fenomeno della maschera del “vecchio”, molto diffusa in alcuni paesi delle Serre, riguarda un evento che va osservato da vicino, appartenente a quelle «rappresentazioni teatrali, dionisiache, tipiche del carnevale» non sempre legate a radici profonde. L’utilizzo di vestiti vecchi e improvvisati potrebbe anche derivare dal tessuto economico-sociale legato alla cultura contadina o pastorale. Non potendosi permettere un abito carnevalesco, o semplicemente non avendo una tradizione di maschere consolidata, si è cercato di fare di necessità virtù incarnando in qualche modo quello spirito teatrale e dionisiaco del carnevale, che potrebbe rivendicare una sorta di tradizione tra qualche anno. Oggi si può comunque sostenere che a reggere le sorti della festa in alcuni centri sia proprio questo nugolo di ragazzi che aggirandosi per le vie del paese mantiene vivo uno degli eventi più importanti dell’anno.

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