Sabato, 08 Aprile 2023 13:10

Il Sabato Santo e la devozione degli «sciancati»

Scritto da Sergio Pelaia
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La deposizione del Cristo a Serra San Bruno (Momento Sera, 1951) La deposizione del Cristo a Serra San Bruno (Momento Sera, 1951)

Non è il classico articolo in cui si descrivono le suggestive tradizioni pasquali. Uno del genere Sharo Gambino lo aveva scritto per lo stesso giornale l’anno prima, invece quello che “Momento Sera” pubblicò nel 1952 - custodito tra quelli che la famiglia dello scrittore ha donato all'archivio comunale consultabile presso la biblioteca "Enzo Vellone" - era molto diverso. Gambino aveva 27 anni e faceva il cronista da quando ne aveva 21, ovvero da quando il quotidiano per cui scriveva esisteva sul panorama nazionale. Su quelle pagine, nell’edizione del 13 aprile, quell’anno raccontò, in un forbito corsivo, la mattinata del Sabato Santo a Serra San Bruno. 

Il titolo, «Annuncio di una vita che si rinovella in letizia», non restituisce a pieno il contenuto: una via di mezzo tra un articolo e un racconto, non si sa e non importa quanto frutto di osservazione e quanto di fantasia, che restituisce una straordinaria teoria di personaggi paesani, un panorama umano degno di un romanzo neorealista attraverso cui racconta usanze, abitudini e piccoli gesti che caratterizzano i giorni di Pasqua di quelli che nell’articolo vengono definiti «devoti sciancati» ma senza il pregiudizio che ne presuppone il significato dialettale. Il senso che evidentemente Gambino vi assegna è quello letterale e figurativo: i malandati, gli ultimi nella scala sociale che però, nel paese, erano tutt’altro che emarginati.

Tra i protagonisti c’è un tale “Sgarra” che, ogni Sabato Santo, «è il primo a mettersi in giro per il paese a schiodar tavole dalle palizzate (e si tira dietro perciò delle maledizioni, perché i contadini quelle tavole, che debbono salvare il raccolto dai ladri, proprio non le vorrebbero toccate)». “Sgarra”, racconta Gambino, si carica in spalla il suo bottino, ingrossato anche dalla legna ammassata in fasci lasciati momentaneamente sull’uscio delle case, e lo va a depositare nella piazza accanto alla Chiesa Matrice, dove quel giorno si accende il «fuoco santo che l’arciprete, in paramenti, benedirà salmodiando e che tutti, sulle pale o a tizzoni, si porteranno in casa perché sia benedetto pure il focolare domestico».

La funzione sociale di “Sgarra” è però più vasta: è «un bravo svegliarino» perché, anche se «nessuno lo ha chiamato a fare quel lavoro», quando passa davanti alle case dei suoi «compagni dormiglioni» si mette a gridare e a prendere il portone a pedate fino a quando «dall’interno dell’umile casa viene un rumore a dirgli che s’è fatta sveglia». Così, dopo il suo passaggio, «sono in parecchi a dimezzare fasci di legna e levar tavole dagli stecconati» e la catasta per il fuoco santo, alla fine, si fa grande, «ma proprio grande».

C’è poi “Sciorta”, un altro «devoto sciancato» secondo il quale «l’arciprete dovrebbe preoccuparsi, ogni anno, di far trovare in sagrestia un bicchierino di Strega o qualcosa del genere perché loro si riscaldino, ma quello ha altro per il capo ed il liquore ama berselo da solo». Le parole di “Sciorta” vengono pronunciate proprio nella sagrestia ma non riscuotono molti consensi, tanto che finisce per litigare con “Sgarra” che invece difende l’arciprete. Alla fine deve intervenire il sagrestano, «che ieri mattina ha fatto la comunione e perciò si sente in dovere di far paternali», ammonendo i due: «Vergognatevi! Litigare in chiesa… e proprio il Sabato Santo!».

Poco distante dalla rumorosa sagrestia c’è Annarosa che scruta dalla finestra «l’umore del tempo» e fa sapere al marito, Turi, il quale ancora indugia nel caldo delle lenzuola, che «il cielo s’è rimesso al buono e che “Galilea” questo anno potranno farla bene». Lui, per tutta risposta, «comincia a lamentarsi, come del resto fa ogni anno, perché ha la spalla indolenzita essendo che la sera precedente ha portato al Calvario la “naca” con Gesù morto». Una “naca” che pesava «come i sette peccati mortali… però era bella, eh, tutta azzurra e piena di angeli». Tanto che Turi si rallegra di aver votato il priore della congrega che quell’anno «ha fatto tutto senza parsimonia».

La «vecchia Colanni» invece si lamenta e si indigna, «Gesù, Gesù!», sentendo che «dal basso della fucina di Sarvaturi veniva uno zirlio di lima». Lavorare il Sabato Santo… quel fabbro «nemmeno all’inferno lo vorranno tanto è spregiudicato». Ma il fabbro Sarvaturi in realtà sta cercando «di fare meno rumore possibile, perché non vuole che si dica che egli lavora pure il Sabato Santo». D’altronde, ne potrebbe fare a meno? Il cronista spiega che «ha sette bocche da sfamare e lui non è don Camillo che i soldi li ha a palate e può benissimo giocarsi, in una serata, al circolo, tre o quattromila lire». 

Nel frattempo “Frasca” è ancora a letto e, con le mani incrociate dietro la nuca, si consuma in una golosa attesa: sta guardando «i salami e le collane delle salsicce che pendono dal soffitto e col pensiero anticipa il festoso scampanìo delle campane a gloria che lo troverà, essendo che oggi si rompe il digiuno, con la padella sul fuoco».

Ci sono altri personaggi, come “Nena” e il suo rampollo, o come Geremia che viene colto dal futuro suocero mentre sospira sotto la finestra dell’amata. Intanto la piazza pian piano si riempie e «formicola di gente parata a nuovo». È Pasqua per tutti. E “Sgarra” ha proprio la sensazione di essere unico, di avere, almeno quel giorno, un «certo potere» perché «senza di lui il fuoco non sarebbe pronto». E non pensa a quando all’indomani incontrerà “Mico Ciccagna” al quale «ha portato via mezzo stecconato e la portella del porcile»…

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