Domenica, 11 Novembre 2018 10:08

La “bufala” della Certosa distrutta dal terremoto - LE FOTO

Scritto da Tonino Ceravolo
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Tra i più persistenti miti pubblicistici intorno alla Certosa di Serra San Bruno quello che la vorrebbe completamente distrutta (e bisogna rimarcare l’avverbio completamente) dal disastroso terremoto del febbraio-marzo 1783 – un sisma, è bene ricordarlo, che in Calabria provocò migliaia e migliaia di vittime – è sicuramente non semplice da rimuovere.
Gazzette di vario genere, reportage giornalistici e (ahimè) persino qualche libro di impianto storico tuttora insistono nel replicare l’idea, come qualcosa di scontato, che il monastero serrese sarebbe stato raso interamente al suolo dal macro-sisma del XVIII secolo. Quasi nulla, tranne qualche superstite e malandato muro, sarebbe rimasto in piedi per effetto del terribile sommovimento tellurico; quasi soltanto l’ingombrante lacerto della facciata della chiesa cinquecentesca della Certosa e l’annesso frammento del chiostro dei procuratori avrebbero avuto la forza di sconfiggere il sisma. Così tenace è tale convincimento – oggi si direbbe tale narrazione – che sembra addirittura inutile esortare gli scrittori “alle storie”, a minimamente affaticarsi alla scuola preziosa dei documenti, ad accantonare le idee ricevute, per dedicarsi all’umile esercizio della verifica.
Sebbene, a dire il vero, qualche giustificazione, agli attuali ripetitori del mito, occorre riconoscerla, se già nel 1784 Francesco Antonio Grimaldi, in un’operina dedicata al sisma (Descrizione de’ Tremuoti accaduti nelle Calabrie nel MDCCLXXXIV) pubblicata postuma a Napoli da Giuseppe Porcelli, dava la Certosa per “intieramente distrutta”. Eppure, nonostante la laconica e granitica certezza del Grimaldi, le cose non stavano esattamente come egli riteneva. Basti pensare che nell’anno stesso del terremoto due testimoni oculari che erano stati a Serra, il Vicario Generale del re Francesco Pignatelli (la cui testimonianza sarebbe andata a confluire nel Giornale de’ tremuoti di Andrea De Leone e nelle due edizioni dell’Istoria e teoria de’ Tremuoti di Giovanni Vivenzio) e Michele Sarconi, segretario della Reale Accademia delle Scienze e delle Belle Lettere di Napoli, pur descrivendo una situazione certamente drammatica, disegnavano un quadro in cui non tutto sembrava compromesso: le mura della clausura, per esempio, risultavano intatte, l’appartamento del Priore era soltanto “danneggiato” nelle mura laterali e nella copertura, la chiesa conventuale non era interamente crollata, alcune delle opere costruite dopo il recupero cinquecentesco erano solo “discretamente lese”. Dava ulteriore riscontro a queste testimonianze, nel 1792, Giuseppe Maria Galanti in viaggio per la Calabria tra marzo e luglio, il quale, giunto nella Certosa il 6 maggio, nel suo Giornale di viaggio aveva modo di annotare: “Guasti meno del terremoto che degli uomini. […] I cadetti tolsero le catene che tenevano legate le fabbriche per venderle […] ed in seguito i Serresi per un poco di ferro rovinarono mura intiere. Senza l’indegnità di costoro l’edifizio sarebbe stato facile a riparare. – Nella chiesa si veggono belle colonne di marmi spezzate e buttate giù per la stessa cagione”. E ancora un secolo dopo, tale stato delle cose, dal quale non si evince certo una distruzione completa e totale delle fabbriche del monastero certosino, veniva ribadito, come si legge, sotto la data del 28 giugno 1894, nel manoscritto della Piccola cronaca della Certosa di Serra di Dom Elie M. Poinsotte: “In quel giorno, sotto la direzione del Sig. Pichat, Architetto francese, e del Sig. Giulio Secondo, Impresario piemontese, furono cominciati i lavori di riedificazione della Certosa. Le parti della Certosa che furono del tutto riedificate sono la Chiesa, le Cappelle private, la Cappella di Famiglia, il Chiostro, le Celle de’ Padri, la Torre dell’Orologio. Altre parti come il Priorato, la Procura, il Refettorio, la Cucina e parecchie stanze de’ Fratelli, nella foresteria furono conservate, perché non avevano quasi sofferto danno dopo il gran terremoto del 1783”.
Questa era la situazione nel momento in cui prendevano l’avvio i lavori di ricostruzione del complesso monastico e di tale situazione è possibile in parte cogliere anche i riscontri visivi in una serie di lastre fotografiche e di foto dell’epoca, tuttora conservate nell’archivio della Certosa, che fanno vedere come il corpo della chiesa conventuale cinquecentesca sopravvissuto al terremoto fosse ben più significativo dell’attuale sua “riduzione” alla sola facciata (figg. 1, 2, 3, in basso) e come, addirittura, fosse ancora in situ la recinzione dell’antico cimitero, oggi scomparsa, e una porzione dell’originario chiostro con il doppio ordine (si veda la straordinaria foto in apertura di questo articolo), del quale costituisce il documento figurativo più importante un’incisione in rame di Antonio Zaballi e Pompeo Schiantarelli (fig. 4, in basso) prodotta per l’atlante pubblicato a corredo dell’Istoria de’ fenomeni del Tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783 di Michele Sarconi. Senza dimenticare che foto e lastre documentano una situazione della fine del XIX secolo e che, sino a quell’epoca e per oltre cento anni, spoliazioni e sottrazioni erano continuate, si potrebbe dire, senza sosta, causando una ricollocazione dei materiali (nobili e meno nobili) della Certosa che, al tempo stesso, li conservava (perché, per quanto riallocati, se ne evitava la scomparsa) e li disperdeva, lontani dal loro “luogo naturale” e spesso ridotti a frammenti di un “corpo” che era stato smembrato. Si produceva, insomma, una “Certosa perduta” e un di più di rovine (e di frammenti, spezzoni, reliquie di rovine) di cui certo non era stato il terremoto la causa diretta, rispetto ai quali il terremoto poteva considerarsi incolpevole.

 

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