Il Vizzarro.it - quotidiano online
Direttore responsabile: Bruno Greco
Redazione: Salvatore Albanese, Alessandro De Padova
Reg. n. 4/2012 Tribunale VV
– Sono fortunata – dice Jamila.
Gli occhi traslucidi, levigati come selce, raccontano il coraggio di una donna che ha guardato in faccia la morte per farne arma di riscatto, resistenza e speranza.
Jamila è una delle insegnanti della scuola del campo profughi di Chatila, zona sud di Beirut, fondata dall’associazione Beit Aftal Assoumoud (La Casa dei Figli della Resistenza), organizzazione apartitica e aconfessionale creata nel ’76 da Arafat e oggi guidata da Kassem Aina.
– A differenza delle mie sorelle, ho avuto la fortuna di conoscere nostro nonno e ascoltare dalla sua viva voce i racconti che profumavano di Palestina, la terra negata che non abbiamo mai visto. Da piccola, attraverso le sue parole, riuscivo a immaginare le distese di ulivi e fichi ai piedi del Monte Carmelo, il sapore succulento dei loro frutti, la bellezza dei colori e del paesaggio che degrada fino al mare in pochi minuti di cammino.
Jamila sogna ogni notte di tornare in Palestina. Il suo sogno è quello di ciascun palestinese che resiste e combatte da 71 anni.
Cosa significa vivere oggi in un campo profughi in Libano, ovvero in uno Stato poco più grande della Calabria, che detiene 500.000 palestinesi e un milione di siriani ai quali sono preclusi i diritti fondamentali, come quello all’istruzione, alla sanità, all’esercizio di decine di professioni dalle più umili alle più qualificate, alla proprietà di un pezzo di terra e di una casa e, non ultimo, il diritto al ritorno nella propria terra?
Non ne abbiamo idea. A casa nostra non giunge notizia di “casa loro”: non lo raccontano la tv e i giornali italiani, né i media internazionali, servi di una propaganda sionista e proIsraele che ci martella senza sosta, sostenuta dalla voce grossa di Trump, che col suo “Patto del secolo” mira a sciogliere la Palestina - e il diritto dei palestinesi al ritorno - come un’aspirina in un bicchier d’acqua.
L’infanzia nei 12 campi profughi del Libano è costretta tra muri di caseggiati fatiscenti, accalcati gli uni sugli altri in cerca di uno scampolo di cielo. Gli alberi, i fiori, i prati e le nuvole sono solo forme dipinte sulle pareti, al chiuso di una piccola aula scolastica; il parco giochi è un dondolo abbandonato alla ruggine e una pila di materassi sfondati sui quali simulare un tuffo nel blu.
Sotto le suole, cumuli di immondizia, ratti, scoli di fogna, escrementi, blatte e asfalto putrido che si insinua negli slum dell’orrore, segnando percorsi angusti: veri e propri “sentieri di nidi di ragno”, dalle traiettorie partigiane.
Sopra le teste, un intrico di fili elettrici scoperti, conduttori di contrabbando, ché neppure la luce è un diritto da queste parti: lanterne di carta colorata oscillano da un capo all’altro, festoni fuori luogo in una matassa elettrica che, ogni mese, frigge vite di passaggio, insignificanti e sconosciute al mondo di là dal muro.
È stata proprio la luce a portare il massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, in una notte di settembre del 1982.
– Non si era mai visto il campo illuminato a giorno a quel modo. Sembrava una festa, i bambini correvano per strada felici.
L’esercito israeliano e l’ambasciata del Kuwait lo illuminavano dall’alto delle rispettive postazioni, facendo luce alle milizie falangiste cristiane libanesi che si addentravano tra i vicoli per compiere una pulizia etnica senza precedenti, casa per casa, col beneplacito delle forze straniere presenti sul territorio: dal 6 di giugno, infatti, l’invasione israeliana del Libano nota col nome beffardo di “Operazione Pace in Galilea” aveva svuotato i campi di uomini e combattenti, ai quali, su richiesta degli stessi palestinesi, si erano sostituiti a protezione i carri armati francesi e italiani.
Eppure, la notte del massacro, nessuno vegliava sull’incolumità di donne e bambini.
Donne che si fanno varco tra i ricordi e le macerie: sono loro ad accogliere il Comitato italiano "Per non dimenticare Sabra e Chatila", nato grazie all’impegno dei giornalisti Stefano Chiarini e Maurizio Musolino, entrambi scomparsi, che ogni anno porta ai familiari delle vittime e a tutti i profughi palestinesi in Libano un messaggio di vicinanza, sostegno e lotta politica.
Ciascun ricordo attende giustizia, perché i campi abitati dagli ultimi - senza prati né cieli - sono quelli in cui fioriscono resistenza e dignità.
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