Sabato, 31 Dicembre 2022 18:30

Benedetto XVI e la Certosa di Serra San Bruno

Scritto da Tonino Ceravolo*
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Joseph Ratzinger durante la sua visita a Serra San Bruno (foto di Vitantonio Tassone) Joseph Ratzinger durante la sua visita a Serra San Bruno (foto di Vitantonio Tassone)

Una lunga linea ideale, tracciata per quasi un millennio, connetteva la visita di Benedetto XVI, il 9 ottobre del 2011, alle lontane origini della Certosa nel 1091, se in quei remoti frangenti un altro pontefice, Urbano II, aveva giocato un ruolo fondamentale per gli esordi in Calabria del monachesimo che poi si sarebbe detto certosino. Urbano, infatti, aveva sostenuto la scelta del suo maestro remense, Bruno di Colonia, di rinnovare nell’Italia meridionale l’esperienza avviata in Francia alla Chartreuse sette anni prima, come autorevolmente testimoniato dalla Cronaca Magister in cui si racconta come Bruno, dopo essersi recato a Roma per aiutare Urbano - eletto papa a Terracina nel 1088 - nella conduzione degli affari ecclesiastici, non sopportando il tumulto e il modo di vivere della curia pontificia e desiderando ardentemente la solitudine e la quiete perdute, aveva chiesto e ottenuto di riprendere la vita eremitica e si era ritirato in Calabria nel deserto di Santa Maria della Torre. Qui, proprio in virtù della concorde volontà di Urbano e del comes normanno Ruggero I d’Altavilla, Bruno aveva ricevuto un luogo solitario, ben distante dalle abitazioni degli uomini secondo il dettato testuale della sua Lettera a Rodolfo, primo porto riparato dell’esperienza monastica in Calabria.

Un “filo rosso” da Urbano II a Leone X

Non si era interrotta, però, con Urbano II la “politica” di benevolente sostegno nei confronti dell’eremo di Santa Maria della Torre stabilito da Bruno, se i suoi successori sul soglio di Pietro l’avevano proseguita senza incertezze, secondo le attestazioni dei diplomi che documentano gli interventi papali in favore dell’insediamento monastico: Pasquale II, il 27 luglio 1101, aveva ribadito come le donazioni normanne comprendessero le foreste, le montagne, la terra e le acque e come, in quello spazio unius leugae, non fosse consentito a nessuno portare animali al pascolo, coltivare, pescare, raccogliere legna. E un’analoga conferma dei beni del monastero era stata successivamente prodotta il giorno 1 dicembre del 1120 anche da Callisto II, il quale, secondo una tradizione locale già presente nel XVI secolo e poi ripresa da Mons. Domenico Taccone-Gallucci, recandosi a venerare il sepolcro di San Bruno avrebbe «consecrato l’altare di S. Maria con annesse indulgenze, da conseguirsi in perpetuo, nelle feste successive al Natale, alla Pasqua e alla Pentecoste […] da tutti coloro che avessero debitamente visitato l’altare medesimo e la Chiesetta». Insomma, un “filo rosso” tra il papato e la fondazione monastica di Bruno di Colonia in Calabria, ulteriormente rinsaldato, agli inizi del XVI secolo, dopo oltre tre secoli di presenza cistercense, da Leone X con la reintegra dell’osservanza  certosina a Serra e con la beatificazione di Bruno.

 Lasciare i beni mondani per afferrare quelli eterni

 Nel segno della continuità tra un pontefice e i successivi sin dagli inizi della fondazione brunoniana in Calabria, si potrebbe dire a proposito della linea ideale che abbiamo segnalato a partire da Urbano II. E alla “continuità”, con riferimento specifico alle sue significative tracce novecentesche, si richiamava espressamente Benedetto XVI nell’esordio della sua omelia pronunciata a Serra, durante i Vespri, davanti alla comunità certosina: «Mi è caro anzitutto sottolineare – aveva affermato il pontefice – come questa mia visita si ponga in continuità con alcuni segni di forte comunione tra la Sede Apostolica e l’Ordine Certosino, avvenuti nel corso del secolo scorso. Nel 1924 il Papa Pio IX emanò una Costituzione Apostolica con la quale approvò gli Statuti dell’Ordine, riveduti alla luce del Diritto Canonico. Nel maggio 1984, il beato Giovanni Paolo II indirizzò al Ministro Generale una speciale Lettera, in occasione della fondazione da parte di san Bruno della prima comunità alla Chartreuse, presso Grenoble. Il 5 ottobre di quello stesso anno, il mio amato Predecessore venne qui, e il ricordo del suo passaggio tra queste mura è ancora vivo. Nella scia di questi eventi passati, ma sempre attuali, vengo a voi oggi, e vorrei che questo nostro incontro mettesse in risalto un legame profondo che esiste tra Pietro e Bruno, tra il servizio pastorale all’unità della Chiesa e la vocazione contemplativa nella Chiesa. […] Il ministero dei Pastori trae dalle comunità contemplative una linfa spirituale che viene da Dio». Si tratta di un documento di grande importanza, non solo in quanto riprende quella linea ideale di attenzione, vicinanza spirituale e sostegno che, lo abbiamo appena visto, aveva avuto il suo abbrivio nello scorcio finale dell’XI secolo, ma pure perché nel confrontarsi con il lascito brunoniano non lo fossilizza nella sua dimensione storica bensì ne enuclea alcuni temi decisivi per la sensibilità contemporanea e coglie del “carisma specifico della Certosa” la sua forza nel mondo di oggi. Se ne può cogliere un evidente indizio a proposito dell’analisi della fenomenologia della vita solitaria, che nel testo di Benedetto prende le mosse da un celebre passo di Bruno e sfocia nel recupero concettuale di un’espressione, quella di “mutazione antropologica”, che nella cultura italiana del Novecento è innanzitutto legata a Pier Paolo Pasolini, un autore, c’è da ritenere, poco prossimo al milieu culturale ratzingeriano. Benedetto XVI, infatti, mette alla prova la validità e la tenuta della scelta certosina della solitudine e del silenzio facendola “reagire” con taluni aspetti essenziali della condizione socioculturale del mondo moderno, la quale, attraverso il progresso tecnico, ha amplificato a dismisura il “rumore di fondo” dei contesti urbani e ha consegnato molte esistenze a una dimensione di predominio della virtualità sulla realtà:

Il progresso tecnico – scrive Benedetto – segnatamente nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, ha reso la vita dell’uomo più confortevole, ma anche più concitata, a volte convulsa. Le città sono quasi sempre rumorose: raramente in esse c’è silenzio, perché un rumore di fondo rimane sempre, in alcune zone anche di notte. Negli ultimi decenni, poi, lo sviluppo dei media ha diffuso e amplificato un fenomeno che già si profilava negli anni Sessanta: la virtualità che rischia di predominare sulla realtà. Sempre più, anche senza accorgersene, le persone sono immerse in una dimensione virtuale, a causa di messaggi audiovisivi che accompagnano la loro vita da mattina a sera. […] Si tratta di una tendenza che è sempre esistita […], ma oggi essa ha raggiunto un livello tale da far parlare di mutazione antropologica. Alcune persone non sono più capaci di rimanere a lungo in silenzio e in solitudine. 

A fronte di tale dimensione, quella dei certosini si pone come un’autentica «missione, quanto mai attuale e significativa nel mondo di oggi» e «dono prezioso per la Chiesa e per il mondo», una missione che affonda le proprie radici, inevitabilmente si potrebbe aggiungere, nella paternità spirituale esercitata da Bruno rispetto all’esperienza monastica da lui scaturita: «“Fugitiva relinquere et aeterna captare”: abbandonare le realtà fuggevoli e cercare di afferrare l’eterno. In questa espressione della lettera che il vostro Fondatore indirizzò al Prevosto di Reims, Rodolfo, è racchiuso il nucleo della vostra spiritualità […]: il forte desiderio di entrare in unione di vita con Dio, abbandonando tutto il resto, tutto ciò che impedisce questa comunione e lasciandosi afferrare dall’immenso amore di Dio per vivere solo di questo amore». Di là dalla virtualità connaturata alla società contemporanea, il silenzio e la solitudine espongono i monaci “al reale nella sua nudità”, a un “vuoto” che, nell’analisi di Benedetto XVI, assume una dimensione ontologica radicalmente diversa rispetto all’altro vuoto, quello esistenziale riempito con i rumori dispersivi della contemporaneità. Nello spazio del monastero il monaco, nella solitudine e nel silenzio, di altro non vive che dell’essenziale e, in questo, «trova anche una profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo». Esercizio e pazienza costituiscono gli strumenti di cui il monaco si serve nel suo cammino di ricerca ed è dunque una vocazione che si costruisce quotidianamente, sostenuta dalla pratica assidua nelle cose dello Spirito e dall’attendere pazienti l’arrivo del Signore. Di altro non si tratta che di quella “perseverante vigilanza divina” richiamata da Bruno nella Lettera a Rodolfo, di quella vigile attesa per aprire subito la porta al Signore quando bussa. Sembra quasi di riascoltare il Salmista: «L’anima mia è protesa verso il Signore più che le sentinelle verso l’aurora» (Salmo 130, 6), sulla cui scia il monaco si porta in perseverante e ben desta attesa.

“Sta” la croce, mentre il mondo si agita

Ne deriva un riconoscimento del fondamentale ruolo dei monaci nella vita della Chiesa che Benedetto XVI enuncia, da Serra, con chiarezza e vigore:

Per questo sono venuto qui, cari Fratelli che formate la Comunità certosina di Serra San Bruno! Per dirvi che la Chiesa ha bisogno di voi , e che voi avete bisogno della Chiesa. Il vostro posto non è marginale: nessuna vocazione è marginale nel Popolo di Dio: siamo un unico corpo, in cui ogni membro è importante e ha la medesima dignità, ed è inseparabile dal tutto. Anche voi, che vivete in un volontario isolamento, siete in realtà nel cuore della Chiesa, e fate scorrere nelle sue vene il sangue puro della contemplazione e dell’amore di Dio.

L’antico motto della Certosa – Stat Crux dum volvitur orbis – fa quasi da sigillo conclusivo all’omelia pronunciata da Benedetto nel monastero di Serra San Bruno, con un potente richiamo alla stabilità della Croce, nella quale è da scorgere l’autentico fondamento di quella stabilitas che costituisce uno dei caratteri essenziali della scelta di vita monastica:

Stat Crux dum volvitur orbis – così recita il vostro motto. La Croce di Cristo è il punto fermo, in mezzo ai mutamenti e agli sconvolgimenti del mondo. La vita in una certosa partecipa della stabilità della Croce, che è quella di Dio, del suo amore fedele. Rimanendo saldamente uniti a Cristo, come tralci alla Vite, anche voi, Fratelli Certosini, siete associati al suo mistero di salvezza, come la Vergine Maria, che presso la Croce stabat, unita al Figlio nella stessa oblazione d’amore. Così come Maria e insieme con lei, anche voi siete inseriti profondamente nel mistero della Chiesa, sacramento di unione degli uomini con Dio e tra di loro. In questo voi siete anche singolarmente vicini al mio ministero.

Attingendo con costanza, si potrebbe aggiungere, a quella scuola della Sapienza alla quale ci si accosta, lo aveva indicato Bruno al suo amico prevosto di Reims, per apprendere la “divina filosofia” che sola dà la “vera beatitudine”.

*Storico, antropologo e scrittore, cura per il Vizzarro la rubrica Nuvole

 

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