Venerdì, 25 Dicembre 2020 08:48

Il Natale di Corrado Alvaro. Il Bambino “annacato” e la magia del “meravigliato”

Scritto da Tonino Ceravolo
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Si apre con l’immagine delle mamme che “annacanu u Bambinu” il Natale che Corrado Alvaro (San Luca 1895 – Roma 1956) consegna alle pagine di un’opera scarsamente studiata e certamente “minore” all’interno di una produzione molto ricca, che ha lasciato alcune pietre miliari della letteratura italiana del Novecento. E forse non ci sarebbe neanche da sorprendersi se dell’autore di Gente in Aspromonte, L’uomo è forte, L’età breve e di racconti tra i più belli del secolo scorso (si pensi allo straordinario Ritratto di Melusina), sia finito trascurato un “libro sussidiario di cultura regionale”, intitolato La Calabria e pubblicato dall’editore Giuseppe Carabba nel 1926 come libro di testo per le scuole, con il nihil obstat del Ministero della Pubblica Istruzione del 23 giugno 1925. Circostanza, questa della destinazione del volume per le aule scolastiche, che probabilmente spiega pure la limitata circolazione del testo al di fuori di quelle aule e la sua scarsa fortuna editoriale, se per la prima ristampa (in anastatica) si è dovuto attendere il 2003 con il marchio dell’editore Iiriti e con il patrocinio del Consiglio Regionale della Calabria. Eppure, questo Alvaro “minore” è pur sempre Alvaro e anticipa per la prima volta, come ha notato Aldo Maria Morace, il disegno di quel “mondo mitico-regionalistico” che sarebbe diventato, pochi anni dopo, una delle cifre più notevoli del suo programma letterario e che qui si esprime nei termini di “ritrovamento delle radici, riconquista di un’identità minacciata dal male epocale della storia, fascinazione di un passato che si congiunge con il mito”.

Ecco, dei caratteri di questo mondo il Natale fornisce ad Alvaro un’eccezionale cartina al tornasole e diventa l’occasione, nelle pagine del sussidiario, per una descrizione incantata e partecipe della terra calabrese. Innanzitutto, è il paesaggio della Calabria a imporsi: “Arriva dalla montagna l’annunzio del Natale col suono della cornamusa dei pastori. Tutti i suoni della terra, il rumore dei fiumi, le voci dei pastori lontani, gli scampanii degli armenti, formano una armonia festiva che dice vicino il Natale” (pp. 46-47). Agli occhi di Alvaro, non appare come una terra facile quella dell’estrema punta dello stivale nel periodo invernale: si accendono fuochi contro i lupi, ogni cosa pare dover essere trascinata via dalla furia dei torrenti e le montagne sembrano “navigare sull’abisso”. E tuttavia, a fronte dell’impeto distruttivo della natura, le tradizioni popolari del ciclo natalizio restituiscono un’immagine diversa della regione, quasi trasognata, fatta di piccole malie quotidiane: “Natale è la festa più bella dell’anno. I ragazzi di tutti i paesi cominciano da questi giorni la stagione dei loro giuochi. La trottola, le nocciuole, i pifferi di canna a cera e ad acqua fanno la loro comparsa in casa. […] Tutti gli strumenti sono pronti e si aspetta la notte di Natale. Quando suonano le campane e Gesù nasce, tutti i ragazzi soffiano nei loro strumenti e il paese sembra trasformato in un bosco di uccelli strani che cantano la gloria del Signore”. I pensieri che il Natale porta sono pensieri lievi, che nascono e muoiono nello spazio domestico delle cucine, dove madri e ragazzi sono indaffarati nella fattura festiva dei dolci: “Anche il Natale porta i suoi pensieri. Bisogna vedere se c’è farina in casa, se c’è miele, se c’è ricotta, se c’è olio abbastanza. […] La famiglia è tutta raccolta in cucina. Si chiude la porta. Si scopre la madia in cui la farina è stata impastata nell’olio. La pasta è bianca come il lievito. La madre prende una manata di pasta, ne fa una ciambella con le sue mani miracolose, fa il segno della croce sull’olio che frigge, e butta giù la prima ciambella. Intanto dice con voce pia: «Buon Natale». I ragazzi in piedi, guardano la prima ciambella affondare nell’olio, poi tornar su gonfia e gialla, tra la schiuma della frittura. E dopo la prima, giù ciambelle e ciambelle. […] La sera stessa le ragazze vanno in giro furtive, con le mani sotto il grembiule, a portare ai parenti e agli amici i doni di Natale” (pp. 48-49). C’è una sacralità soffusa, intima e convinta, nei gesti che Alvaro descrive: le mani miracolose della madre, il segno della croce, il messaggio augurale che si diffonde nella cucina. E poi i doni natalizi, nascosti sotto il grembiule e in questo modo protetti, custoditi, per non sciuparli e consegnargli integri. 

E naturalmente è il Presepe l’espressione maggiore di questa sacralità, un presepe calabrese scrive Alvaro, che della Calabria riproduce il paesaggio, i fiumi che sbucano dalle valli, le montagne “ripide e selvagge”, il giallo delle arance che penzolano sopra ogni cosa come un “frutto favoloso”. Vero sembra il paese riprodotto nel presepe e vere sembrano le figure che lo abitano, perché, tranne che per i soldati di Erode, i pastori somigliano a “persone conosciute”: “C’è quello che porta la ricottina. C’è il cacciatore col fucile, c’è quello che porta l’agnello e fuma una lunga pipa. C’è il mendicante davanti al Presepe. C’è la gente che balla fra il tamburino, il piffero e la zampogna davanti al Presepe. […] Ci sono persino i carabinieri che hanno arrestato un tale che ha rubato anche nella Santa Notte”. Tutto questo mentre la Stella splende sulla grotta e gli angeli, come i pensieri dei bambini, “vi danzano sopra leggeri e celesti”. Infine, c’è l’Incantato, quella figurina presepiale stupefatta che in alcuni paesi è denominata il “meravigliato” (lu meravigghiatu) e che assiste alla nascita di Gesù bambino lasciando svanire tutto ciò che ha intorno per concentrarsi sul solo evento che conta. Nulla sono per lui le occupazioni quotidiane, nulla il laborioso affaccendarsi degli altri pastori, nulla il paesaggio di fiumi, montagne e valli che lo circonda: “L’Incantato è un pover’uomo che non ha nulla e non porta nulla. S’è fermato accanto alla grotta e guarda la stella che è posata come una farfalla tra la neve della roccia, sulla mangiatoia dove è nato il Signore. Non si muove e non fa nulla. Sta lì a braccia aperte, a bocca spalancata, a guardare quella Stella. Tutti attorno a lui si agitano. […] Ma l’Incantato è là come uno scimunito, colpito dal segno celeste, senza poter parlare. Egli ha capito tutto, conosce il miracolo della nascita del Signore. Ma non potrà mai raccontarlo a nessuno” (p. 51). Nell’espressione attonita del “meravigliato” risiede l’essenza stessa del sacro, mistero affascinante e tremendo che lo ha invaso, per lasciarlo senza parole.

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